Perù: bilancio e prime lezioni di una lotta in corso
A cura del Partito socialista dei lavoratori (sezione peruviana della Lit-Quarta Internazionale)
Pubblichiamo in questo dossier alcuni articoli di analisi delle mobilitazioni di questi ultimi mesi in Perù. Gli articoli sono stai scritti dal Pst - la sezione peruviana della nostra organizzazione internazionale (Lit) - attivo nelle proteste. Nel frattempo, la repressione poliziesca si è inasprita: ci sono stati nuovi arresti e omicidi di manifestanti. Per un aggiornamento sulla lotta è possibile consultare il nostro sito internazionale www.litci.org.
Nonostante al governo pretendano di avere vinto e fingono una normalità nell’esercizio delle loro funzioni, la lotta per la cacciata di Boluarte e dell’odiato Congresso continua e gli animi sono più caldi di quando è iniziato questo processo.
La lotta, tuttavia, si è presa una tregua dopo più di quaranta giorni di mobilitazione permanente da quando era ricominciata a inizio gennaio. Gli attivisti e tutti coloro che hanno partecipato alle lotte in questi giorni fanno bilanci e discutono su quanto è successo con l’intento di riprendere le azioni con più chiarezza. Per contribuire a questo dibattito, tentiamo di offrire con questo articolo alcuni spunti di riflessione.
La tregua di questi giorni è prodotto della stanchezza degli attivisti delle popolazioni più povere di Puno, Cusco e del sud peruviano che alimentavano le lotte dal 7 dicembre, mettendovi tutte le loro energie, le loro risorse e i loro sacrifici, puntando solo a ottenere la caduta del governo Boluarte e dei suoi compari del Congresso: per molti un’aspirazione legittima e giusta, dopo la mattanza che avevano causato. Tuttavia, incontrando un contesto più complicato e difficile di quello che si erano immaginati, e sotto la pressione delle penurie materiali, hanno deciso di retrocedere.
Perché la lotta non ha vinto?
Settanta giorni di lotta eroica, di mobilitazione costante, di blocco totale di varie regioni e località dell’interno del Paese, di spostamento a Lima di migliaia di attivisti dove hanno realizzato mobilitazioni gigantesche, di dura resistenza contro la repressione che ha portato alla morte di 48 attivisti e che ha lasciato centinaia di feriti gravi, e la grave ripercussione sull’economia non solo delle masse popolari povere, ma anche dell’economia nazionale: perché non sono stati sufficienti per vincere?
Perché per vincere la lotta avrebbe dovuto riuscire a convertirsi da regionale a nazionale, con la partecipazione delle principali forze popolari, e soprattutto della classe operaia concentrata a Lima.
In alcuni momenti la lotta ha avuto questa portata, come quando si sono organizzate le grandi giornate del 19 gennaio con l’appello alla «presa di Lima», e i giorni seguenti all’occupazione dell’Università di San Marcos da parte della polizia, fino allo sciopero nazionale che la Cgtp ha convocato con inizio il 7 di febbraio. Ma questo non è stato un processo di accumulazione che sarebbe dovuto terminare sfociando in un’azione decisiva che avrebbe portato alla caduta di Boluarte, ma è stato un processo abortito con lo «sciopero indefinito» del 7 febbraio convocato dalla Cgtp.
La lotta del sud ha dato tutto quello che poteva dare. Ha ottenuto l’appoggio di una parte della gioventù, di parte della popolazione povera di Lima che ha dato vita a cortei di massa partendo dalle periferie; è riuscita a conquistare l’appoggio di un settore della classe lavoratrice e la simpatia della sua maggioranza, che aveva mostrato la disposizione a partecipare con maggiore decisione, e ha guadagnato quello delle stesse classi medie democratiche che, spaventate dalla repressione cruenta e dalla deriva reazionaria del governo, sostenevano la rivendicazione delle dimissioni immediate di Boluarte e la convocazione di elezioni anticipate.
La lotta era riuscita anche a guadagnare l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale, con governi e organizzazioni a tutela dei diritti umani che esprimevano critiche al governo e al Congresso. Così si è diffuso un sentimento favorevole alla caduta del governo e lo stesso Congresso, pur se riluttante per l’accordo tra destra e «sinistra» nel non voler rinunciare alle loro poltrone, è stato obbligato a discutere l’anticipo delle elezioni a quest’anno.
Per arrivare alla caduta del governo e del Congresso serviva un impulso finale, un impulso forte come un blocco nazionale effettivo in tutto il Paese, coinvolgendo la classe operaia e i settori popolari.
Il ruolo della Cgtp nel demoralizzare la lotta
Il blocco nazionale, come concretizzazione dell’unità nella lotta, poteva essere preparato e convocato solo dalla Cgtp [Confederazione generale dei lavoratori del Perù], perché lì è organizzata la maggioranza della classe lavoratrice, che non agisce in contrasto con questa confederazione sindacale. Ma non è stato fatto. La direzione della Cgtp ha convocato lo «sciopero indefinito» del 7 febbraio, ma non ha mosso nemmeno un dito per garantire un solo blocco: non ha organizzato una sola assemblea nazionale, non ha discusso la cosa con la base… si è limitata a proclamare lo sciopero, realizzando una locandina virtuale e lo ha lasciato al suo destino con l’intento esplicito di portarlo al fallimento.
La dirigenza del sindacato ha dimostrato così di non essere dalla parte della lotta delle masse popolari per la caduta di Boluarte e la chiusura del Congresso, ma si poneva, nei fatti, dal lato di quanti sostenevano la continuità del regime.
Dato che è una direzione basata sul movimento operaio, la sua politica non è stata direttamente traditrice, ma si presentava sfumata. Per questo, invece di porsi alla testa della lotta per darle una direzione nazionale, la Cgtp si è posta a rimorchio della lotta, con alcuni appelli separati, sfilando al di fuori delle mobilitazioni di quanti lottavano e facendolo in forma «disciplinata», anche con la protezione delle forze di polizia, cosa che in alcune occasioni lo stesso governo ha accolto come mobilitazione «responsabile».
Questa politica del «marciare a rimorchio» si è convertita in un salto nel vuoto con lo «sciopero indefinito» del 7 febbraio, convocato con l’unico scopo di dar vita a un’azione fallimentare che demoralizzasse la classe operaia e gli stessi attivisti popolari in lotta. Per questo quel giorno non si bloccò nulla, e se qualcuno lo fece, nemmeno loro stessi lo presentavano come un esempio da seguire. La giornata, che doveva essere combattiva, iniziò e terminò con un corteo scialbo che arrivò al Congresso con la polizia che gli apriva la strada, ed ebbe un finale tanto burocratico quanto la sua convocazione, perché non venne nemmeno annunciata in maniera ufficiale, non si fecero bilanci, né nessuno rivendicò o disse.
In questo modo, la direzione della Cgtp, invece di lavorare per l’ingresso ordinato e organizzato della classe operaia nella lotta per definirne il risultato, ciò che ha fatto è stato separarla da tutto, conducendo un fantasioso «sciopero indefinito» per demoralizzare la lotta nel suo complesso.
Alcuni insegnamenti
Da questa esperienza gli attivisti in lotta del sud traggono alcune conclusioni che crediamo essere sbagliate. Pensano che la loro lotta sia solo regionale, contro Lima; e dentro Lima collocano organismi come la Cgtp. Questa visione regionalista li porterà a retrocedere ancora di più. Il problema è socialmente e politicamente trasversale, tra la classe lavoratrice e i poveri da un lato e le classi dominanti dall’altro, e la lotta è attraversata da un problema di direzione: quella della Cgtp e delle «sinistre» che ne occupano le cariche.
Per vincere la lotta deve essere nazionale e per questo si deve raggiungere l’unità della maggioranza degli oppressi e degli sfruttati intorno a un piano di lotta e di un blocco nazionale. Questo non si è potuto concretizzare non per colpa della classe lavoratrice che simpatizza con la lotta del sud, ma per il tradimento della direzione centrale della Cgtp che la frena e che tratta con le classi dominanti e con il governo di Boluarte.
Le conclusioni che traggono gli attivisti e le attiviste in lotta del sud possono essere un pericolo per la ripresa della lotta. Le conclusioni che traiamo noi pongono un compito chiaro: costruire una nuova direzione indipendente.
Questa nuova direzione deve forgiarsi lavorando per costruire l’unità della lotta operaia e popolare. Questo può significare pretendere che la Cgtp si assuma le sua responsabilità in questa lotta e, nel caso non lo faccia, organizzare un cambio della direzione.
Questa è il compito enorme che pone l’inizio di una nuova tappa della lotta. Con questo orientamento può aprirsi una prospettiva migliore per la lotta stessa, con passi che significherebbero un avanzamento nella risoluzione del compito più strategico che abbiamo, quello di costruire una direzione rivoluzionaria per la lotta. (10 aprile 2023)
Perù: la classe operaia e la sua direzione
Pst (Perù)
Il problema della mobilitazione o della smobilitazione dei lavoratori ha a che fare con la loro direzione politica, principalmente della Cgtp.
Quello che tutti possiamo constatare è che la classe operaia organizzata è quasi assente dalla lotta che si sta conducendo oggi in Perù contro il governo di Dina Boluarte, nonostante sia in gioco il suo stesso destino. Il fatto che alcuni settori siano della Cgtp (Confederazione Generale dei Lavoratori) - che sta seguendo gli eventi con la sua politica di accodamento al processo e non di direzione - o si aggiungeranno già nei prossimi giorni, non cambia la situazione.
E non stiamo parlando di una cosa di poco conto: il ruolo della classe operaia è decisivo in questo momento; la sua scarsa partecipazione prolunga questa lotta già lunga e difficile, mentre il suo inserimento in essa con tutte le sue forze contribuirebbe alla sua rapida vittoria.
La presenza della classe operaia è decisiva non solo per la sua collocazione al centro dell'economia che muove le grandi imprese (miniere, fabbriche, agro-esportazioni) e di cui si nutrono i proprietari del Paese, ma anche per il suo immenso potenziale, che si esprime nelle sue numerose organizzazioni forgiate nelle grandi lotte: la lotta di migliaia di lavoratori del settore tessile contro il regime di esportazione (2009-2014), la grande lotta contro la legge Pulpín (2015, una sorta di Jobs Act peruviano, ndt), lo sciopero della potente Federazione Mineraria (2017) con l'infinità di eroici e lunghi scioperi come quelli che hanno avuto luogo lo scorso anno.
Il fatto stesso che ci siano settori importanti della classe operaia, anche se lottano per conto proprio, è un segno importante della loro esistenza come classe. Tuttavia, il fatto che non siano coinvolti con tutte le loro forze nella lotta attuale e non ne abbraccino la causa e le bandiere, è dovuto a una ragione: la sua direzione politica, la Cgtp, conciliante e riformista.
Nella lotta quotidiana i lavoratori più avanzati possono comprendere i loro limiti: ad esempio, che la lotta per le loro rivendicazioni è molto difficile e che è meglio unificarsi in una sola lotta; che non si scontrano solo con un singolo padrone, ma con una classe e un sistema, leggi e forze repressive incluse; possono però anche comprendere la necessità della loro unità di classe per lottare per conquiste generali e della loro alleanza con i settori più sfruttati per ottenere diritti sociali e democratici.
I lavoratori però non fanno progressi in questa comprensione e non passano al livello politico perché i loro dirigenti li tengono concentrati sulle loro rivendicazioni minime e isolati nei loro spazi sindacali. Questo è il ruolo quotidiano dei dirigenti, soprattutto della Cgtp. A causa di questa stessa politica, cercano addirittura di tenerli a distanza dalla grande ribellione dei settori popolari [del sud, ndt].
Riforme sì, rivoluzione no
C'è una spiegazione per questo. Se in questo momento la classe operaia si ponesse in prima linea nella ribellione in corso, a un certo punto proporrebbe la propria soluzione: prendere il potere e istituire un governo dei lavoratori. Questo perché non c'è altro modo di realizzare il programma di cambiamenti richiesto (la nazionalizzazione delle grandi miniere, ad esempio) senza che la classe operaia si mobiliti in una lotta frontale contro la borghesia, una lotta che nella sua dinamica può essere conclusa e portata a termine solo con l'instaurazione del potere operaio.
Naturalmente, queste direzioni non vogliono nulla di tutto ciò. Sognano solo di «riformare» il sistema attuale e di renderlo più «umano». Ma poiché il sistema (capitalista) non accetta nemmeno questo (come si vede nella loro feroce opposizione alla convocazione di un'Assemblea Costituente), finiscono per capitolare, proprio come è successo durante la presidenza di Castillo quando, con il potere in mano, non ha realizzato nessuna delle sue promesse.
Ecco perché questi dirigenti, seguendo la stessa linea che hanno seguito in tutti questi anni quando hanno tenuto la classe operaia rinchiusa nelle sue lotte isolate e nelle sue rivendicazioni settoriali, ora non fanno nulla per inserirla nella lotta in corso, e le impediscono di diventare un attore politico rivoluzionario.
I settori in lotta
Tuttavia, i settori che stanno combattendo in queste settimane hanno una dinamica diversa e sfuggono al controllo di queste direzioni. Sono costituiti da contadini poveri e piccoli commercianti, che rappresentano l'altra faccia del modello neoliberale (poli di ricchezza in attività oligopolistiche ed estrattive dove si genera occupazione e si colloca la classe operaia, in un mare di povertà diffusa in tutto il Paese). Questi settori fecero propria la candidatura di Pedro Castillo e delle sue proposte di nazionalizzazione e di Assemblea costituente, come speranza di un cambiamento della propria vita, dopo la tragedia della pandemia; mentre la classe operaia si è unita a loro solo grazie ai propri dirigenti raggruppati dietro la debole candidatura di Veronica Mendoza.
E cosa hanno ottenuto? Enorme frustrazione. Questi settori vedevano solo un attacco permanente al Congresso da parte della borghesia e dei suoi agenti, lo stesso Castillo giustificava la sua rinuncia alle riforme promesse indicandone la causa in questi attacchi. Così, questi settori popolari hanno visto nel suo allontanamento quel «colpo di stato» così spesso annunciato dalla borghesia e, quando sono scesi in piazza per difendere le loro speranze di cambiamento, sono stati accolti con proiettili e morte, ciò che ha poi scatenato la ribellione che stanno mettendo in campo oggi.
La borghesia non si stanca di additare la stessa «sinistra» riformista e conciliante come responsabile dell'attuale ondata di lotte. Ma questo è falso. Questa sinistra si è completamente screditata proprio per ruolo avuto durante il governo Castillo, perché ha votato per la sua destituzione e perché proprio ora, nel dibattito sull'anticipazione delle elezioni, sta dimostrando di rimanere aggrappata alle sue poltrone. Al di là di queste «direzioni» fallite, ciò che è certo è che l'attuale lotta è nata dalla base, ed è la base che la sostiene e le dà impulso facendo pressione sui suoi stessi dirigenti.
La base in lotta ha imparato la lezione del governo Castillo: i cambiamenti non si ottengono votando ma lottando, non si vincono al Congresso ma nelle strade, non si ottengono collaborando con la borghesia ma lottando contro di essa fino a sconfiggerla. E lo fanno nell'unico modo in cui possono farlo: con le loro organizzazioni territoriali e i loro metodi di lotta, come i blocchi stradali, le occupazioni locali e lo scontro con la polizia.
Si tratta di una svolta che dimostra come la lotta in corso abbia superato la direzione della classe operaia.
Questa particolarità viene utilizzata dalla borghesia per confondere i lavoratori e tenerli lontani da questa lotta. Per esempio, con un'intensa propaganda etichettano questa ribellione come violenta, vandalica e sovversiva; e in contrapposizione affermano di essere difensori della pace e della tranquillità. Questo imbroglio sarebbe facilmente smascherato se i dirigenti lo denunciassero con fermezza e si schierassero incondizionatamente con questa lotta; ma è la loro posizione tiepida che permette alla borghesia di intaccare la coscienza di ampi settori dei lavoratori.
Conclusioni
Tutto ciò porta a una conclusione: l'atteggiamento dei lavoratori nei confronti del conflitto in corso è plasmato dal comportamento della maggioranza dei dirigenti, oggi come in passato.
Ciò rende necessaria la creazione di una nuova direzione rivoluzionaria e consapevole della classe, che si faccia carico delle richieste di cambiamento nelle campagne, della lotta per l'Assemblea Costituente, della nazionalizzazione delle miniere e della conquista di un governo dei lavoratori e dei poveri che realizzi queste aspirazioni. Questo è ciò che il Pst (sez. peruviana della Lit-Quarta Internazionale) sta propagandando tra i settori in lotta come una urgente necessità. (8 febbraio 2023)
Il governo di Dina Boluarte: mesi di repressione e morte in Perù
di Amílcar Lobo
A diversi giorni dalla caduta di Castillo e dall'ascesa del governo di Dina Boluarte, il Perù sta affrontando manifestazioni di massa che chiedono «Via Dina e il parlamento, elezioni anticipate e un'Assemblea Costituente». Ma anche una violenza istituzionale che può essere paragonata a quella scatenata durante il periodo della violenza politica e, in alcune azioni, come l'intervento della polizia all'Universidad Nacional Mayor de San Marcos (Unmsm), a quanto accaduto durante la dittatura di Fujimori.
Dal 4 gennaio, le mobilitazioni sono riprese con particolare forza negli altopiani meridionali del Paese, con una crescente presenza nazionale a Lima. Sono stati ripresi ed estesi i blocchi stradali, le mobilitazioni e alcune azioni di occupazione delle sedi delle imprese minerarie e agroindustriali.
È stata inoltre avviata la cosiddetta «Toma de Lima», che in concreto prevede la mobilitazione di delegazioni dalle regioni del Paese in cui la lotta è più forte (Puno, Cusco, Andahuaylas, Ayacucho) verso la capitale, per scontrarsi con il governo.
La risposta del governo è stata sulla stessa linea di dicembre, con una brutale repressione della mobilitazione con biglie di vetro e gas lacrimogeni, con l'estensione dello Stato di Emergenza per molti giorni a Puno, Cusco, Lima e Callao, con irruzioni violente in locali, case e persino nell'Unmsm e con arresti selettivi e arbitrari.
Secondo il Comitato nazionale di coordinamento dei diritti umani del Perù, questi atti costituiscono gravi violazioni dei diritti umani del popolo peruviano. «La risposta dello Stato peruviano alle mobilitazioni è stata di una brutalità senza precedenti nella storia della democrazia del Paese (...) Massacri perpetrati in tre città, insieme a esecuzioni extragiudiziali più limitate altrove».
Al momento sono state uccise 57 persone (tra cui 1 poliziotto) e ferite 1.658 (di cui circa 600 poliziotti), con numeri che crescono di giorno in giorno.
La polizia e gli agenti statali del governo Dina sono i promotori di questo massacro, ricevendo persino dei bonus (denaro) per questa azione, come recentemente reso noto dal primo ministro Alberto Otarola.
Pratiche repressive dello Stato
Le organizzazioni per i diritti umani hanno identificato diverse pratiche repressive, in particolare le seguenti:
- Uso di munizioni proibite per il controllo della folla, come pallini metallici incluso il calibro 004, biglie di vetro e proiettili, con particolare attenzione all'uso di fucili automatici, inclusi Akm e Galil, nel caso dell'esercito e uso di bombe lacrimogene lanciate direttamente sul corpo dei manifestanti.
- Uso indiscriminato della forza per colpire non solo i manifestanti, ma anche i passanti e persino gli operatori sanitari e i giornalisti.
- Torture e trattamenti inumani e degradanti da parte della Pnp (Polizia nazionale del Perù), con i manifestanti picchiati durante la detenzione e il trasferimento nelle stazioni di polizia, nonché le condizioni di detenzione nelle stesse, incompatibili con la dignità umana (i detenuti sono confinati in condizioni di sovraffollamento, senza ventilazione o infrastrutture adeguate). In alcuni casi i detenuti sono confinati in celle di 1,5 x 2 metri, senza accesso a un cortile o alla luce del sole, senza illuminazione artificiale, lasciati al buio dalle 18 in poi.
- Violenza sessuale, con un caso di stupro multiplo all'interno di una stazione di polizia ai danni di una giovane donna arrestata durante le proteste e perquisizioni intime e palpeggiamenti a manifestanti e studenti in detenzione, in particolare durante l'irruzione all’Unmsm.
- L’intervento autorizzato dell’esercito nelle operazioni di polizia, nonostante il massacro perpetrato dai militari ad Ayacucho il 15 dicembre 2022.
- Uso di infiltrati per istigare attraverso WhatsApp e gruppi correlati, con la mancanza di identificazione visibile del personale di polizia e militare in uniforme.
- Arresti arbitrari, violazioni del giusto processo e criminalizzazione di cittadini che non hanno commesso alcun reato, solo per la loro partecipazione alle manifestazioni, con diversi anziani, minori e persino venditori ambulanti che sono rimasti intrappolati negli assalti della polizia. L'irruzione contro le persone ospitate nell'Unmsm, con l'arresto di 193 persone, brutalmente private della loro libertà e detenute in condizioni indegne, così come un’irruzione in un accampamento di manifestanti nella città di Abancay, nelle prime ore del mattino del 14 dicembre, dove hanno arrestando più di 50 contadini, distruggendo i loro beni.
- Detenzione inutile e prolungata di persone più vulnerabili, come una donna con la figlia piccola (durante l’irruzione all'Unmsm) o donne incinte. Mancata garanzia di assistenza medica tempestiva ai detenuti con problemi di salute o che si ammalano durante la detenzione.
- Creazione di barriere che limitano l'accesso agli avvocati dei detenuti, mentre questi sono costretti a firmare verbali senza assistenza legale. A ciò si aggiunge il rifiuto di fornire informazioni in tempo reale sull'identità e la posizione dei detenuti, compresi i minori.
- Aggressioni contro i difensori dei diritti umani, con violazione delle abitazioni e minacce di morte da parte di militari e poliziotti. Gli avvocati che si recano nelle stazioni di polizia sono spesso maltrattati e ostacolati nell'esercizio del loro lavoro, compresi spintoni che causano la caduta di alcuni di loro.
- Attacchi ai giornalisti. Dal 1° gennaio, l'Associazione nazionale dei giornalisti (Anp) ha documentato 37 attacchi contro loro membri nel contesto delle manifestazioni.
Repressione legalizzata
La legislazione antiterrorismo ha portato a gravi violazioni dei diritti fondamentali, in particolare a danno della popolazione civile, durante il conflitto armato interno tra il 1980 e il 2000. Secondo la Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Trc), che ha utilizzato la categoria di «conflitto armato interno», si è trattato del «più intenso, esteso e prolungato episodio di violenza nella storia della Repubblica». A causa delle azioni dei gruppi sovversivi e del loro scontro con le forze statali sono morte circa 69.000 persone, la maggior parte delle quali contadini e minoranze etniche, religiose e sessuali.
Il decreto legge 25.475 firmato da Fujimori nel 1992 ha comportato l'introduzione di una definizione penale di terrorismo in cui qualsiasi atto e qualsiasi persona potevano essere considerati terroristi; il ripristino dell'ergastolo e un sistema di pene che violava il principio di proporzionalità, oltre ad altre misure.
Dopo oltre un decennio di vigenza, la Corte Costituzionale ha emesso sentenze contro i decreti legge antiterrorismo, dichiarando incostituzionali parte di queste norme. Ma mantiene la logica e lo stesso schema di una legislazione eccezionale, quando il percorso richiesto anche dal sistema interamericano per la protezione dei diritti umani va in una direzione diversa. È urgente riordinare questo quadro normativo in modo che sia più in linea con un regime democratico.
Questi decreti sono stati sostenuti dalla Costituzione del 1993, redatta dopo il colpo di Stato di Fujimori del 5 aprile 1992. L'articolo 2 dà alla polizia il potere di prendere in custodia le persone accusate di reati legati al terrorismo per un massimo di 15 giorni prima di portarle davanti a un giudice; e l'articolo 140 stabilisce che la pena di morte può essere applicata per il reato di tradimento
Tuttavia, anche per gli standard borghesi, le circostanze attuali sono molto diverse da quelle che esistevano negli ultimi due decenni del secolo scorso. Il mantenimento di una strategia antiterrorismo basata sul prolungamento dell'emergenza e sulla militarizzazione, come risposta dello Stato, è ingiustificato. È giustificato solo per combattere la protesta sociale che scende in piazza.
Ci sono persone che vengono convocate come testimoni nelle indagini solo perché hanno contatti nelle loro reti sociali, con l'unico obiettivo di seminare paura nella popolazione e stigmatizzare le persone indagate. Come l'indagine per terrorismo avviata contro 28 contadini che alloggiavano presso la Confederación Campesina del Perú (Confederazione contadina peruviana). Pertanto, è chiaro che le richieste degli attivisti che sono in piazza per chiedere una nuova Costituzione che elimini la spazzatura fujimorista sono più che all'ordine del giorno.
Organizzare la classe per difendersi dalla repressione statale
Ma questo da solo non basta. Azioni come la repressione statale contro il corteo funebre di due dei giovani assassinati nella regione di Andahuaylas il 12 dicembre 2022, il massacro ad Ayacucho il 15 dicembre e il massacro a Juliaca il 9 gennaio, con una letalità impressionante e un impatto indiscriminato sulla popolazione, dimostrano come sia necessario che, insieme alle rivendicazioni di cambiamenti giuridici e di una nuova legge, si chiedano anche una nuova costituzione; e il massacro di Juliaca del 9 gennaio dimostra come sia necessario che, insieme alle rivendicazioni di cambiamenti giuridici e di una nuova Costituzione, la classe operaia, i contadini e gli studenti si organizzino nelle loro strutture per combattere questa repressione con la loro legittima autodifesa, in tutti gli aspetti, per combattere la violenza dello Stato e la sua arbitrarietà. (27 gennaio 2023)