NON C'E' PROSPETTIVA PER I
MOVIMENTI DI LOTTA
SENZA UN PARTITO COMUNISTA
DI OPPOSIZIONE
di Francesco
Ricci
LA LEGGE IMPLACABILE CHE CONDANNA LA
SOCIALDEMOCRAZIA
Franco Giordano pallidissimo ai telegiornali che
inanella frasi prive di senso e goffamente pare tentato di coprire dietro la
giacca la piazza vuota alle sue spalle su cui impietosamente si allarga lo
zoom del telegiornale. Quale miglior sintesi della fine ingloriosa di
un partito?
Più si prodiga in servizi per il governo, più Rifondazione perde voti (è ridotta
ormai forse a un partito del 3 o 4%); più copre le politiche anti-operaie di
Prodi, più si trova scoperta, contestata davanti alle fabbriche, abbandonata dai
militanti e da quell'area che pure aveva raccolto negli ultimi quindici anni. E
più il gruppo dirigente burocratico del Prc è isolato, più è bistrattato dagli
alleati borghesi del governo. E' la legge implacabile che ha condannato tutti
gli esperimenti socialdemocratici degli ultimi due secoli e che oggi sta
rapidamente polverizzando un partito che si trova ad agire in assenza persino di
quei minimi spazi “redistributivi” su cui hanno campato per un po' (prima di
crollare comunque) socialdemocrazie ben più robuste di quella di
Giordano.
MA CI RIPROVERANNO COL
CANTIERE
I dirigenti di Rifondazione (almeno quelli non
completamente storditi dai lussi di governo) sono consapevoli della situazione
tragica ma sono incapaci di concepire una diversa prospettiva perché rinchiusi
in quel piccolo orticello che, se ben curato, può dare loro una piccola
notorietà, un piccolo prestigio e qualche non piccolo privilegio
burocratico.
Dunque, per migliorare le loro prospettive (quelle dei
lavoratori non sono affar loro) cercheranno di abbreviare i tempi di costruzione
del nuovo soggetto unitario con Mussi e Diliberto. Una confederazione per le
amministrative del 2008 e (come insistono i più fedeli collaboratori di
Bertinotti: Alfonso Gianni e Rina Gagliardi) un nuovo partito da presentare per
le europee del 2009, con nome e simboli “socialisti” (come indirettamente
anticipa Bertinotti con l'uscita della nuova rivista da lui diretta,
Alternative per il socialismo), cioè eliminando (o rimpicciolendo
progressivamente) ogni riferimento anche meramente simbolico al comunismo.
L'idea è che unendo i vari pezzi della sinistra di governo, strategicamente
alleata con i liberali del Partito Democratico di Veltroni, D'Alema e Rutelli,
si potrà recuperare il calo di consensi, alimentando nuove illusioni sotto
l'immortale richiamo all'”unità”. Il primo passo sarà, nei prossimi giorni, una
battaglia comune dei 150 parlamentari del “cantiere” per limare gli aggettivi
nel Dpef ed esibire un qualche presunto risultato. Anche se le minacciose
interviste di D'Alema (“basta con la sinistra di lotta e di governo”) e il
crudele soffermarsi dei “democratici” sul fallimento della manifestazione dei
“cantieristi” di sabato 9 già chiarisce che persino gli aggettivi, stavolta,
saranno intoccabili e al più ci sarà spazio per proporre radicali modifiche dei
segni di interpunzione nei programmi del governo.
COSA SIGNIFICA “EXIT STRATEGY” DAL
GOVERNO?
La manifestazione del 9 giugno è stata una vittoria non
solo contro le burocrazie della sinistra di governo ma anche contro chi ha
tentato in ogni modo di attenuarne il significato politico anti-governativo e
che oggi si intesta il risultato.
Il caso più clamoroso è quello di Giorgio
Cremaschi, leader della Rete 28 Aprile. Dopo essersi proposto come “pontiere”
tra la manifestazione e la piazza di governo, dopo aver avversato una
caratterizzazione chiaramente “anti-Prodi” del corteo (nel gruppo organizzativo
del comitato promotore ci siamo trovati quasi soli a sostenere realmente slogan
che ponessero sullo stesso piano le guerre di Bush e quelle di Prodi), dopo aver
aderito tanto alla piazza di governo come al corteo, la sera del sabato si è
subito dichiarato vincitore. Un po' come se a un giocatore di roulette
fosse consentito di vincere puntando contemporaneamente sul rosso e sul
nero.
Oggi Cremaschi (v. l'articolo di Barenghi sulla Stampa del 11
giugno) propone una “exit strategy” di Rifondazione dal governo. Che è un modo
elegante per rinviare il problema della costruzione -qui e subito- di una
opposizione alle politiche anti-operaie di Prodi (si fa velato riferimento a un
sostegno “esterno” al governo), al contempo scaricandone le responsabilità sugli
altri.
FINALMENTE ANCHE SINISTRA CRITICA
DECIDE DI USCIRE DAL PRC.
BENE: MA PER FARE COSA?
In varie
dichiarazioni sulla stampa e in particolare con una intervista sul Corriere
della Sera (lunedì 11 giugno), Salvatore Cannavò, di Sinistra Critica,
annuncia la scissione a settembre della sua corrente da Rifondazione.
Non
essendo settari diciamo subito che ci fa piacere. E non vogliamo nemmeno tornare
sul fatto che, quando per primi uscimmo dal Prc dopo le elezioni del 2006, molti
(anche Cannavò) fecero una facile ironia sulle scissioni. Con tutta evidenza i
fatti ci hanno dato ragione e non ci interessa vantare primogeniture o limitarci
a dire che “lo avevamo detto”.
Ma come ribadimmo in occasione della
successiva scissione di Ferrando dal Prc (per dare vita
a un partito con un programma colabrodo “in quattro punti” e senza una struttura
organizzativa di militanti, cosa che gli ha fatto perdere in un anno una
metà degli attivi, mentre una nuova scissione si è consumata proprio nei giorni
scorsi, con l'uscita di quasi tutti gli aderenti del Lazio, dell'Umbria, del
Veneto, della Calabria): il problema non è semplicemente uscire da
Rifondazione. E' decidere cosa fare dopo.
Da questo punto di vista,
quali sono le risposte che danno i compagni di Sinistra Critica?
In questo anno i due parlamentari di
Sinistra Critica hanno votato la Finanziaria e il rilancio delle politiche di
guerra contenute nei 12 punti, cioè hanno votato tutto l'essenziale, salvo
prendersi qualche libertà (non partecipazioni, astensioni, ecc.) su singoli
provvedimenti del governo. Ancora nei giorni scorsi (anche se la cosa non ha
destato la necessaria attenzione), Franco Turigliatto ha votato a favore di
quella che ha giustamente riassunto come "la mozione di apprezzamento della
Guardia di Finanza proposta dalla maggioranza”, segnalando quanto sarebbe
pericoloso “mettere in difficoltà il ministro che ha il compito di combattere
l'evasione fiscale”, pur rilevando che la mozione “è debole” e che sarebbe
necessaria “una discussione sul riordino degli apparati” (citiamo
dall'intervento di Turigliatto al Senato). Ancora sul Corriere
(proprio mentre annuncia la scissione) Cannavò conferma che per quanto riguarda
il voto al governo deciderà “di volta in volta”. Ciò che esclude, evidentemente,
la costruzione tanto in parlamento come nelle piazze di una coerente
opposizione al governo -i cui atti vanno considerati nel loro insieme come
l'espressione politica attuale dell'imperialismo italiano e del programma di
fondo dei settori centrali della grande borghesia. Non si può stare eternamente
in un limbo: è uno spazio che può funzionare nelle interviste ma non nella
realtà della lotta di classe. Proviamo a parlare di fatti concreti.
Se la sinistra di governo lavora attivamente
per impedire la crescita di una opposizione e di uno sciopero generale contro la
riforma delle pensioni e contro le politiche militari, una sinistra di classe
deve costruire quell'opposizione immediata e necessaria -nelle piazze ma anche
nelle aule parlamentari- che è il vero motivo per cui alcune decine di migliaia
di militanti hanno manifestato sabato 9 a Roma, ignorando i gruppi dirigenti del
loro partito che li invitavano a preferire un concerto rock in piazza. Se la
sinistra di governo punta a costruire un nuovo partito socialdemocratico, con il
progetto stravecchio di governare con la borghesia illuminata (che poi sarebbero
Marchionne e De Benedetti o i banchieri come Profumo), una sinistra di classe
non può baloccarsi con formule da tavola rotonda, come “le reti”, “i forum” ecc.
, deve costruire un partito di militanti, che formi il suo radicamento nelle
lotte, a partire dai luoghi di lavoro (non limitandosi a un calendario di
manifestazioni, pur importanti).
A meno che l'obiettivo non sia quello di
limitarsi ad occupare uno spazio lasciato libero da Rifondazione. Ma con chi e
con quale progetto, poi? Gli attuali interlocutori invocati da Cannavò (e
riuniti in una recente assemblea a Roma) paiono tutti animati da progetti ben
differenti tra loro. Bernocchi (dei Cobas) mantiene un orizzonte pansindacale,
esplicitamente allergico all'idea di partito ed è al più interessato ad avere un
partito che faccia da sponda al suo sindacato (come per anni è stato con
Rifondazione). Casarini (già collaboratore del precedente governo Prodi e
ora promosso dai giornali leader di un ribellismo privo di contenuti politici)
sembra più che altro interessato a ritagliarsi un ruolo purchessia, comunque non
in un partito e tantomeno in un partito comunista. Cremaschi punta ancora (lo ha fatto anche per il 9) a fungere da
trait-d'union tra la sinistra di governo e le aree variegate che si
muovono fuori di lì; e ancora oggi parla di progetti per “salvare Rifondazione”
che dovrebbe essenzialmente “liberarsi di Bertinotti” (come se il problema fosse
trovare un leader da sostituirne a un altro e non un progetto politico
strategicamente differente).
Se questi sono gli immaginari compagni di
viaggio, altrettanto incerta è la strada. Cannavò per ora chiarisce due cose:
primo, di non voler fare un partito; secondo, di continuare a credere (come la
sua area esplicitò all'ultimo congresso di Venezia) che non si può essere
"pregiudizialmente" (per noi si tratta di un fondamentale pregiudizio di classe)
all'opposizione del governo di centrosinistra: di qui i voti alternati, le
allusioni a un incomprensibile combinarsi di "sostegno esterno" al governo e di
"opposizione sociale". Di qui anche il richiamo ricorrente nei testi dei
dirigenti di quest'area a un presunto bertinottismo della prima ora, quello che
si pretendeva parte dei movimenti ma (aggiungiamo noi) li usava come trampolino
di lancio verso il governo.
Può essere questa la prospettiva per i
compagni che oggi, o a settembre, infine escono dal Prc? Non c'è il rischio che
l'unica intesa possibile tra gli indicati referenti di questa "rete" consista in
una presentazione comune alle europee del 2009 (o alle amministrative dell'anno
prossimo)? Certo avere degli eletti nelle assemblee borghesi può essere un punto
di appoggio secondario: ma solo se lo si considera come tale, e dunque se questi
parlamentari sono al servizio di un partito e di una strategia.
NOI LAVORIAMO A COSTRUIRE UN
PARTITO: COMUNISTA, D'OPPOSIZIONE E INTERNAZIONALISTA.
PERCHE' E' DI QUESTO CHE C'E'
BISOGNO
In una stagione in cui tutti i peggiori arnesi della
politica distillano saggezze sulla “crisi della politica” (che è poi solo un
rifiuto dei lavoratori -spesso con traduzioni impolitiche- della sostanziale
identità tra i due poli dell'alternanza, il riconoscerli come “tutti uguali”),
noi non ci pentiamo del progetto a cui stiamo lavorando di costruzione di un
nuovo partito. E per di più un partito di opposizione di classe, e
dunque opposizione permanente e inconciliabile -"a prescindere"- e non solo
“critica” o periodica ai governi della borghesia. Un partito comunista e
rivoluzionario, basato sulle fondamenta storiche del marxismo rivoluzionario
(alla cui attualità non a caso dedichiamo anche il nostro seminario estivo),
parte di una Internazionale dei lavoratori che si sta ricostruendo e che già
oggi è profondamente inserita nelle battaglie quotidiane dei lavoratori contro
le politiche dei governi borghesi: dalla Spagna di Zapatero al Brasile di Lula
(dove i nostri compagni guidano mobilitazioni di massa contro il governo).
Pensiamo di avere le stesse finalità di
tanti compagni che lasciano in questi mesi il Prc e che non crediamo vogliano
reinvestire le loro energie in progetti confusi, di mezzi partiti, di mezze
opposizioni, senza chiare fondamenta programmatiche.
Siamo convinti che le energie militanti
disponibili debbano essere investite in un progetto in cui sia chiaro il
programma (lo sviluppo odierno del marxismo rivoluzionario), la
strutturazione in un partito (e non la riedizione di "reti" e altre formule
fumose già sperimentate senza esito tante volte), una organizzazione di
militanti (e non di semplici iscritti a una struttura "leggera" attorno a un
leader).
Senza un partito comunista di questo tipo,
noi crediamo, non vi è nessuna prospettiva per le lotte e i movimenti che
ciclicamente rinascono. Soprattutto non vi è prospettiva per la lotta che
dobbiamo ora -subito- condurre contro il governo Prodi: contro lo scippo dei
Tfr, per il ritiro delle truppe, contro le guerre della borghesia imperialista
italiana, per la difesa di salari e pensioni, contro le leggi precarizzanti del
lavoro, contro le politiche di smantellamento delle strutture pubbliche, contro
le politiche di devastazione dell'ambiente, contro le leggi che consentono uno
sfruttamento "doppio" dei lavoratori immigrati. In altre parole, non è possibile
sviluppare queste lotte, coordinarle nazionalmente, costruire uno sciopero
generale unitario contro il governo se non si costruisce un nuovo partito
comunista, un suo radicamento nei luoghi di lavoro, una sua azione
sindacale.
Non è tempo per i tatticismi verbali: riempiranno qualche colonna di giornale ma non
fermeranno l'attacco di Prodi e non costruiranno quell'alternativa dei
lavoratori e dei giovani che è ogni giorno compito più urgente.
Con la chiarezza che ci è consueta, senza
diplomazie, questo vogliamo dire a chi ci legge e ai compagni che, da soli o
collettivamente, stanno giustamente decidendo di uscire da Rifondazione.
Salutiamo con favore la loro scelta e anche a loro proponiamo la costruzione,
nella chiarezza, di una comune prospettiva di alternativa di
classe.