Senza lotte dei lavoratori non ci potrà essere un vero cambiamento
Dichiarazione sulla caduta del governo Draghi e sulla fine del «governo di unità nazionale»
Nelle giornate di mercoledì 20 e giovedì 21 luglio si è consumata l’ennesima crisi di governo, che ha portato alle dimissioni di Draghi dal governo e alla fine anticipata della legislatura, con elezioni anticipate fissate per il 25 settembre.
Il premier aveva presentato una prima volta le dimissioni dopo che il 13 luglio: i Cinquestelle non avevano votato la fiducia sul decreto «aiuti», ma il presidente Mattarella le aveva respinte, di modo che si provasse a ricostruire la maggioranza in Parlamento. Tuttavia, al momento della votazione al Senato, non solo il M5s, ma anche Forza Italia e Lega, hanno ritirato il proprio sostegno all’esecutivo, ponendo fine alla maggioranza di «unità nazionale». Tra i più strenui sostenitori di Draghi, uomo simbolo del più feroce capitalismo finanziario e internazionale, il Pd di Letta, che ha fatto della difesa del governo di unità nazionale il suo cavallo di battaglia. Questo dimostra come fossero solo lacrime di coccodrillo strumentali quelle relative alla mancata approvazione da parte del governo del ddl Zan. Ciò che veramente conta per il Pd è la difesa degli interessi della grande borghesia italiana ad esso legata: per questo non ha esitato a genuflettersi a Draghi.
Una crisi istituzionale espressione di una crisi sociale profonda
Questo è stato solo l’epilogo di una legislatura instabile, riflesso distorto di un Paese socialmente diviso, situazione aggravata da una stagnazione economica che già prima del covid-19 minacciava di detonare in una crisi vera e propria. Tutto questo ha creato un’importante frattura nella borghesia italiana, che dal fallimento del progetto presidenzialista di Renzi non ha più avuto un progetto politico che risultasse maggioritario al suo interno, dovendo così fare i conti con la crescita del «populismo», espressione distorta della crisi sociale del Paese, che nelle ultime legislature ha messo in crisi il normale sistema dell’alternanza borghese proprio della cosiddetta Seconda repubblica. Tra i motivi della crescita di consenso della destra populista tra le masse povere vi è anche la capitolazione dei partiti della sinistra riformista e delle direzioni sindacali (Landini e burocrazia della Cgil in primis) alle peggiori politiche di governo, da Conte a Draghi: basta pensare al fatto che in parlamento l’opposizione (per quanto timida) al governo Draghi è stata di fatto lasciata a Fratelli d’Italia, il che spiega anche la crescita del consenso elettorale di questo partito nella classe operaia.
L’esecutivo Draghi è stato uno dei più feroci governi borghesi degli ultimi anni: dallo sblocco dei licenziamenti (che hanno lasciato sulla strada migliaia di lavoratori) alla repressione degli scioperi e dell’attività sindacale, la grande borghesia italiana ha avuto in Draghi un valido rappresentante, sempre pronto a elargire regali miliardari al capitalismo di casa nostra. Non a caso, il presidente di Confindustria, Bonomi, è stato tra coloro che si sono stracciati le vesti per evitare la crisi di governo, nonostante l’instabilità dello stesso.
Infatti, in questa legislatura, la borghesia ha dovuto puntare giocoforza prima sulla maggioranza Lega-M5s del governo a guida Conte, poi su quella Pd-M5s con lo stesso premier, e infine su un esecutivo di «unità nazionale». Mario Draghi, già presidente della Bce, gode della fiducia della borghesia italiana ed europea, ed era il candidato più adatto ad allargare la maggioranza cercando di stabilizzarla, soprattutto in vista della ripartizione dei fondi in arrivo dall’Unione europea (fondi che ammontano a circa 25 miliardi di euro, di cui 9 di soli aiuti a fondo perduto per i capitalisti), consentendo: 1) di ottenere i fondi attraverso la fiducia delle istituzioni europee sostanzialmente nella figura di Draghi; 2) attenuare lo scontro tra i partiti per la gestione dei fondi stessi, garantendone un «buon utilizzo» per la borghesia. Così si arrivò al noto Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
Draghi non ha risolto i problemi della borghesia
Nonostante questo, le contraddizioni e le fratture nella maggioranza governativa, che riflettevano contraddizioni all’interno del «Paese reale», continuavano ad aggravarsi, anche a fronte di un importante evento che portava ulteriore instabilità e crisi (aumento dei prezzi dei carburanti, dei costi energetici e dell’inflazione in generale) come l’invasione russa dell’Ucraina. Le diatribe in merito alla spartizione dei fondi del Pnnr hanno reso esplosive le contraddizioni interne al parlamento, accentuando gli scontri interni. Senza contare le diatribe per la legge elettorale e la perdita di consenso nei confronti dei partiti di governo per l’esacerbarsi della crisi sociale. Se i partiti di destra hanno deciso di staccare la spina, è stato anche per non lasciare il «momento di gloria» solo alla Meloni.
Si è arrivati così alla caduta del governo Draghi, uno dei più feroci governi anti-operai della storia repubblicana, strenuo difensore degli interessi della borghesia e acerrimo nemico dei lavoratori e delle masse popolari. Per questo è stato veramente indecoroso lo spettacolo dei tanti che, anche a sinistra, hanno fatto appelli al premier «a restare». Tuttavia, non possiamo aspettarci che il prossimo governo sarà migliore. Certo, Draghi era l’uomo di fiducia di tutto l’establishment europeo e delle istituzioni finanziarie internazionali che ben sappiamo quali sacrifici impongono ai lavoratori (in pieno accordo con le borghesie «nazionali»), ma qualsiasi governo borghese salirà in carica dopo di lui difenderà sostanzialmente gli stessi interessi, quelli della borghesia italiana, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione e tutto quello che ne consegue: primato del profitto su ogni altra cosa, attacchi ai lavoratori e alle loro condizioni di vita, negazione dei diritti per le donne, gli immigrati e le persone lgbt, devastazione ambientale ecc.
I lavoratori non devono smettere di lottare
Sarebbe stato diverso solo se il governo Draghi fosse stato cacciato dalle lotte dei lavoratori: questo sì avrebbe potuto porre le basi per una prospettiva di cambiamento. Purtroppo, non solo le burocrazie sindacali hanno tenuto a bada o comunque separate le lotte che in questo anno e mezzo hanno tentato di opporsi ai licenziamenti selvaggi (vedi su tutte Alitalia e Gkn) e alla perdita di potere d’acquisto dei salari, senza dimenticare gli scioperi contro i cosiddetti «protocolli sicurezza», ma la Cgil, principale sindacato italiano per numero di iscritti, per bocca del suo segretario Landini ha chiesto ai partiti di non far cadere il governo perché questo potesse aiutare i lavoratori e le loro famiglie (sic!). Un totale capovolgimento della realtà.
Una realtà che tocca ai lavoratori e alle masse popolari rimettere al proprio posto: infatti, è improbabile che dalle urne a fine settembre esca un governo forte e stabile, anche nel caso in cui dovesse avere una solida maggioranza parlamentare. I lavoratori in lotta, e solo loro, sono in grado di mettere la parola «fine» alle pantomime del sistema partitico italiano, a patto che sappiano unire le loro lotte e mettere al centro la difesa reale dei loro interessi, espropriando cioè tutte le imprese che licenziano o che tentano di delocalizzare, azzerando i profitti delle imprese che gestiscono energia e distribuzione del gas, aumentando i salari, facendo pagare la crisi a chi l’ha creata.
Le misure che servono non sono quelle di cui si parla in parlamento. Occorre rivendicare: una tassazione fortemente progressiva che faccia pagare chi si è arricchito in questi anni di pandemia; un piano di opere pubbliche compatibili col rispetto dell’ambiente per assorbire la disoccupazione; l’esproprio e la riconversione immediata delle fabbriche che inquinano; l’avvio di un piano serio di investimenti in energie rinnovabili; aumento degli investimenti pubblici a scuola e sanità, ecc. Queste sono solo alcuni esempi delle tante misure che sarebbero necessarie, e di cui nessuno parlerà nella prossima campagna elettorale. Tocca ai lavoratori metterle «al centro del dibattito» portandole avanti con le loro lotte. Solo così potremo porre le basi per un vero cambiamento, per questo serve un governo di lavoratori che governino per i lavoratori stessi.
Comitato centrale del Pdac