La rivoluzione d'Ottobre, 105 anni dopo:
tre motivi per difenderne la memoria
di Francesco Ricci
«L'avvenire appartiene ovunque al bolscevismo»
Rosa Luxemburg
A oltre un secolo di distanza, la rivoluzione d'Ottobre continua a poter essere utilizzata come una cartina di tornasole per giudicare ogni partito della «sinistra». È sufficiente porre a contatto la storia dell'Ottobre bolscevico con un partito, compresi alcuni che si definiscono «comunisti» o financo «rivoluzionari», per capire la reale natura del suo programma. Si vedrà rapidamente che la gran parte vira al blu, al rosso solo eccezioni.
Come si è visto cinque anni fa, quando cadeva il centenario, gli stessi mezzi di comunicazione e propaganda della borghesia sono costretti ancora a distanza di un secolo a fare i conti con la vicenda della storia dell'umanità che più detestano. Per questo nel 2017 ci inondarono con un fiume di articoli, libri, trasmissioni televisive. Giornalisti improvvisatisi storici, storici che non supererebbero un esame elementare, intellettuali di scarso intelletto ci intrattennero per alcune settimane con ricostruzioni frutto di approfondimenti degni di Wikipedia. Quest'anno la rivoluzione russa compie il suo centocinquesimo compleanno: manca la decade delle commemorazioni e dunque dovremmo poterci risparmiare, almeno in parte, i festeggiamenti di nemici e falsi amici della rivoluzione e del comunismo. Un motivo in più per tornare a riflettere sul più grande avvenimento storico dell'umanità.
Lo facciamo ripubblicando qui sotto un nostro saggio approfondito sul tema del programma e del partito che guidarono la rivoluzione. Mentre qui vorremmo provare piuttosto, in forma stringata, a indicare alcuni buoni motivi, diciamo tre, per ricordare, difendere e divulgare quel particolare ottobre di tantissimi anni fa. Tre motivi che da oltre un secolo consentono di distinguere i riformisti dai rivoluzionari, il blu dal rosso.
Primo. La storia continua, ma è diretta verso un precipizio
Dopo il crollo dello stalinismo, Francis Fukuyama, studioso di scarsi studi, guadagnò parecchi quattrini diffondendo la tesi della «fine della storia». Ripresa e riformulata dai cantori prezzolati della borghesia, questa tesi individuava nella società capitalistica l'ultimo orizzonte dell'umanità. Le mostruosità dello stalinismo venivano presentate come il logico sbocco del comunismo, Marx, ma soprattutto Lenin e l'Ottobre, venivano presentati come l'anticamera dei gulag. Dunque non restava che riporre ogni speranza in un mondo diverso e convincersi dell'impossibilità di una alternativa al capitalismo. I dirigenti riformisti, cioè coloro che Lenin definiva con efficacia «agenti della borghesia nel movimento operaio», si misero subito all'opera per confermare questa tesi. L'obiettivo del movimento operaio veniva ridimensionato: dal rovesciamento della tavola borghese a una spazzolata delle briciole sulla tavola. Negli anni successivi, innumerevoli esecutori hanno suonato questa aria in tutte le sue varianti, come Bach fece con le trenta Variazioni Goldberg. Unico il refrain: il capitalismo può essere governato diversamente, è sufficiente votare per i partiti riformisti, rafforzarli nel parlamento, dare loro la possibilità di entrare nei governi borghesi per sostenere le riforme.
Un'aria che sentiamo suonare perlomeno dalla fine dell'Ottocento: solo che negli ultimi venti o trent'anni è stata eseguita in un teatro di crisi capitalistica.
Il capitalismo non è più in grado di offrire nessun progresso alla società. Se c'è stato un tempo in cui ogni generazione poteva aspirare a qualche relativo miglioramento sociale in relazione con le generazioni precedenti, oggi non è più così. I salari valgono sempre meno; il lavoro è sempre più precario (solo una minoranza di lavoratori ha un impiego stabile a tempo indeterminato); i disoccupati si contano a milioni; lo stato sociale (sanità, pensioni, scuola, trasporti), tagliato dai governi padronali di ogni colore, offre servizi inesistenti; una fetta crescente della popolazione vive in condizioni di miseria.
Crisi economica, crisi ambientale, poi, dal 2020, crisi pandemica e quest'anno il ritorno della guerra in Europa e le minacce di un conflitto nucleare.
La storia dunque continua la sua marcia, incurante di Fukuyama. Ma non è una locomotiva avviata, di riforma in riforma, verso il «sol dell'avvenire» promesso dai riformisti di ogni tempo: il convoglio corre verso un precipizio in cui cadrà se i rivoluzionari non riusciranno per tempo, per dirla con Walter Benjamin, a tirare il freno d'emergenza.
Secondo. Il riformismo si conferma inutile e dannoso per i lavoratori
Il nuovo riformismo che, a differenza di quello di un secolo fa, non è in grado nemmeno di garantire piccoli e temporanei miglioramenti, è costretto spesso a gestire direttamente le contro-riforme. Per questo è in crisi e i partiti riformisti non riescono a radicarsi tra i lavoratori e sono condannati a un ciclo vitale sempre più breve. Rifondazione Comunista, Syriza, Podemos, sono tre esempi illustrativi di questa realtà. Dopo aver accumulato una forza relativa nelle mobilitazioni, l'hanno investita per acquisire uno strapuntino nei governi borghesi. Una volta fatto il lavoro sporco, cioè dopo aver sostenuto e legittimato politiche anti-operaie, la borghesia li ha scaricati. Ma questo non significa la morte del riformismo. Al contrario, il capitalismo ha sempre bisogno di arruolare dirigenti disposti a seminare illusioni nelle riforme. E la crisi prolungata della direzione rivoluzionaria lascia spazio al riemergere continuo di nuove sigle riformiste o centriste (cioè semi-riformiste) che, a loro volta, ostacolano la crescita di una coscienza di classe dei lavoratori e la costruzione di partiti rivoluzionari.
Terzo. Solo il bolscevismo può garantire un futuro all'umanità
Tutto quanto abbiamo fin qui succintamente descritto non è, ripetiamolo, nuovo. Certo è cambiato in parte il contesto ma questo scontro tra riformisti e rivoluzionari, tra due prospettive che non si distinguono per il ritmo di marcia ma, come già ricordava Rosa Luxemburg, perché portano in direzioni opposte; questo scontro si è prodotto nel movimento operaio fin dal suo sorgere. Nella Russia del 1917 ha portato i partiti della «sinistra» su fronti opposti. Su un fronte la maggioranza di questi partiti, impegnati nella difesa di un «governo delle sinistre» all'interno del capitalismo, cioè di un governo borghese. Sul fronte opposto i soli bolscevichi, impegnati a guadagnare la maggioranza dei lavoratori politicamente attivi alla necessità di rovesciare quel governo, rompere lo Stato borghese e costruire un governo dei lavoratori e uno Stato operaio. Non era la prima volta: già ci avevano provato gli operai parigini durante la Comune del 1871, ma era stata un'esperienza di poche settimane. In Russia, invece, i bolscevichi guidati da Lenin e Trotsky riuscirono a consolidare il potere operaio, cioè la dittatura del proletariato. Non fu un accidente, non fu un caso fortuito. Era il prodotto di anni di costruzione di un partito marxista, operaio, di militanti, internazionalista, intransigentemente all'opposizione persino del governo provvisorio «di sinistra» che aveva il sostegno dei soviet ma che rimaneva in ogni caso un governo nel capitalismo e dunque un governo borghese.
Quell'esperienza che ha sconvolto il mondo non potrà mai essere cancellata, per quanti sforzi abbiano fatto e facciano la borghesia e i suoi agenti riformisti per occultarla o deformarla.
Ed è interesse di tutti i lavoratori e i giovani che non vogliono rassegnarsi alla barbarie di questo sistema studiare come fu possibile vincere nel 1917 e cioè soprattutto come si costruì quel partito bolscevico che fu il fattore fondamentale della vittoria. Anche quest'anno dunque per noi non si tratta di celebrare retoricamente l'Ottobre 1917 ma di prepararci nelle nuove condizioni storiche a riprovarci.