Partito di Alternativa Comunista

«Facciamo come a Mirafiori!» Dallo Statuto dei lavoratori all'occupazione della Fiat nel 1973: le lotte operaie in Italia agli inizi degli anni Settanta

«Facciamo come a Mirafiori!»

 

Dallo Statuto dei lavoratori all'occupazione della Fiat nel 1973:

le lotte operaie in Italia agli inizi degli anni Settanta

 

 

di Fabiana Stefanoni

 

 

 

Se è vero, come diceva Marx, che ci sono giorni in cui si condensano venti anni, volgendo lo sguardo all'Italia della fine degli anni Sessanta e degli inizi degli anni Settanta, l'impressione è proprio questa: che il tempo in quegli anni scorra velocissimo, con il concentrarsi di eventi di grande impatto, capaci di ridefinire, nel giro di pochi mesi, i rapporti tra le classi e fare piazza pulita dei vecchi equilibri.
Sono anni rivoluzionari, se accettiamo il concetto che la rivoluzione sia, nella sua essenza, «l'irrompere violento delle masse sul terreno dove decidono le loro sorti» (1). Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, in Italia sono proprio le masse operaie che entrano in scena, prendono coscienza della propria forza, si liberano temporaneamente dalla tutela della socialdemocrazia sindacale e del Pci, impongono alla classe avversa le loro condizioni.
Ma quegli stessi sono anche gli anni - e lo sappiamo bene oggi dopo quasi quarant'anni di controffensiva padronale - di un movimento rivoluzionario fallito, in cui la mancanza di un partito trotskista e internazionale con influenza di massa, associata alla presenza del più forte partito riformista di derivazione stalinista d'Europa (il Pci), ha determinato la dispersione delle energie migliori nei mille rivoli dei tanti gruppi e movimenti della sinistra extraparlamentare. Energie che sono infine evaporate negli anni in cui la repressione dello Stato borghese e il terrorismo hanno chiuso le porte in faccia al risveglio delle masse, ricacciandole tra le braccia dei vecchi tutori (il Pci e gli apparati sindacali di Cgil, Cisl e Uil).
Abbiamo già parlato, in un precedente articolo (2), delle lotte operaie e studentesche in Italia nel '68-'69. In questo articolo ci soffermiamo, invece, sui primi anni Settanta (fino al '73), analizzando quella che è stata considerata un'eccezione nel contesto europeo, ovverosia quel «prolungarsi della conflittualità» che «costituisce uno degli aspetti più originali e discussi del caso italiano» (3). Ci limitiamo qui ad approfondire le lotte operaie e il conflitto nelle fabbriche, lasciando sullo sfondo il contesto internazionale e gli eventi politici, sia quelli relativi alle istituzioni dello Stato borghese, sia quelli che riguardano le organizzazioni della sinistra.
Basti qui ricordare che questi sono gli anni in cui nascono di fatto tutte le organizzazioni della sinistra extraparlamentare, da Avanguardia operaia al gruppo del Manifesto, da Lotta continua a Potere operaio: organizzazioni che, come vedremo, riusciranno a giocare un ruolo importante nelle mobilitazioni operaie di quegli anni, contribuendo, coi loro limiti, al fallimento di questa straordinaria stagione di lotte, che non riuscirà a mettere in discussione il sistema capitalistico. Confusione programmatica, rifiuto del partito di tipo leninista, isolamento internazionale, elogio delle forme di «riappropriazione diretta», incapacità di concepire la tattica in funzione della strategia: sono queste le caratteristiche principali delle organizzazioni dell'estrema sinistra in Italia degli anni Settanta. Non possiamo approfondire in questo articolo le caratteristiche di ciascuna di esse, ma è utile ricordare che mai la storia d'Italia aveva visto un fiorire così rapido di partiti sedicenti rivoluzionari in grado di attrarre tra le proprie fila decine di migliaia di militanti.
Sono gli anni in cui, dal fallimento del movimento rivoluzionario della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, attingerà infine linfa il terrorismo, che brucerà una generazione di giovani quadri operai e studenteschi cresciuti nel fuoco delle lotte. Ne uscirà vincitrice la borghesia italiana, che, con alcune concessioni sul terreno dei diritti sindacali e democratici concertate con gli apparati sindacali tradizionali (concessioni che oggi si sta riprendendo), supererà pressoché indenne il decennio. Un decennio di controllo operaio nelle principali fabbriche del Paese, dove i militanti dell’estrema sinistra esercitano un ruolo dirigente nelle lotte, con la possibilità di mettere in scacco l’intera produzione industriale del Paese: da Mirafiori a Torino (il più grande complesso industriale d’Europa) alla Pirelli-Bicocca di Milano, da Porto Marghera a Venezia all’Alfa Romeo di Arese.
Sono gli anni in cui escono le prime riviste femministe, con un’attenzione totalmente nuova alle questioni delle donne in un contesto fortemente maschilista come quello italiano, patria della Chiesa cattolica: attenzione che non resterà solo sulla carta ma che diventerà movimento di massa, contribuendo a portare all’interno del movimento operaio il tema dell’oppressione della donna, seppur con molte degenerazioni separatiste e riformiste, ascrivibili anch’esse ai limiti programmatici delle organizzazioni politiche da cui le femministe provengono.
Sono, infine, gli anni in cui, dopo l’ondata del '68-'69, gli apparati dello Stato borghese affinano gli strumenti repressivi, inasprendo l’autoritarismo (leggi speciali, ampio uso del fermo di polizia e del «reato di opinione», processi in contumacia, omicidi e stragi di Stato), infiltrando le organizzazioni del movimento operaio al fine di favorire la repressione delle avanguardie più combattive: tutto ciò nell'ambito di una «strategia della tensione» in cui il terrorismo nero gioca un ruolo importante per i padroni, spesso in complicità con i Servizi segreti. Basta pensare alle ripetute stragi di Stato (da Piazza Fontana in poi), utilizzate per incriminare ed eliminare militanti della sinistra.
Tutto questo avviene in un contesto internazionale turbolento, che condiziona fortemente il dibattito politico nelle organizzazioni della sinistra nostrana, sia istituzionale che extraparlamentare: dal colpo di Stato in Cile alla guerra in Vietnam, ai miti della rivoluzione cultura cinese e della guerriglia guevarista. Non potremo approfondire qui tutti questi aspetti e rimandiamo, per questo, ad articoli già pubblicati sulla nostra rivista Trotskismo oggi (e ad altri che pubblicheremo).
Pensiamo sia importante riscrivere la storia del movimento operaio, in Italia come nel mondo, per non lasciare la memoria né ai vincitori (la borghesia e i suoi governi) né ai corresponsabili del fallimento delle mobilitazioni rivoluzionarie (lo stalinismo e la socialdemocrazia in primis, i gruppi dell’ultrasinistra, i riformisti e centristi in seconda istanza). Pensiamo che l’esperienza del passato ci possa servire anche per orientare la nostra azione rivoluzionaria oggi, imparando dagli errori e, soprattutto, conoscendo il nemico di classe e le sue armi.
Parafrasando Trotsky, la falsificazione storica consiste spesso nel far ricadere la responsabilità della sconfitta delle masse sulle masse stesse, e non sui partiti e le organizzazioni che le hanno paralizzate o schiacciate (4). Cercheremo quindi, in questo articolo, di fare l’esatto contrario: dimostrare le responsabilità delle direzioni politiche e sindacali nel fallimento di quella stagione rivoluzionaria. 

 

I Consigli di fabbrica: tra democrazia operaia e burocratizzazione

Il '68 e il '69 vedono la nascita, nel vivo delle lotte, di nuove forme di organizzazione e rappresentanza nelle fabbriche. Gli operai, prendendo esempio da Mirafiori e dalla Pirelli, imparano che possono andare oltre le indicazioni del sindacato, assumendo un ruolo decisionale nelle vertenze. Le assemblee operaie (spesso su iniziativa dei militanti politici) si consolidano come l'organo di discussione privilegiato, in particolare negli stabilimenti Fiat e all'Alfa Romeo: i lavoratori hanno imparato, per loro esperienza diretta, che quando si muovono compatti il sindacato è costretto a seguire la volontà operaia, e, così facendo, si vince contro i padroni, come nel '69.
Ma, proprio per evitare tutto ciò, gli apparati sindacali hanno bisogno di riprendere le redini del movimento e di assorbire gli organismi autonomi degli operai. Non è più possibile tornare indietro: le sezioni sindacali di fabbrica e le commissioni interne (5) sono ormai strutture vuote, presenti sulla carta ma assenti nella vita reale della fabbrica. Nel '68-‘69 gli operai sono scesi in sciopero uniti, al di là delle sigle. Per gli apparati sindacali - che vogliono essere riconosciuti come unico interlocutore valido per il padronato e, al contempo, consolidarsi come strutture di controllo sulla classe operaia - si tratta ora di inglobare le nuove forme organizzative che gli operai si sono dati. E ci riescono: dalla fine del '69 nascono nuove strutture di rappresentanza sindacale in fabbrica che tentano di sostituire le assemblee autoconvocate, o almeno di ridimensionarne il ruolo.
L'assemblea operaia rimane, ma con funzioni e poteri limitati. Si eleggono dei delegati per l'applicazione delle decisioni dell'assemblea e nascono i comitati sindacali di reparto (o di azienda) e i Consigli di fabbrica che, a partire dal giugno del '69, verranno riconosciuti (sebbene solo indirettamente) in alcuni contratti aziendali, in particolare alla Fiat. I delegati sono eletti nelle varie squadre senza indicare l'appartenenza sindacale.
I delegati diventano la nuova rappresentanza degli operai, subentrando alle vecchie Commissioni interne e alle Sas e Ssa aziendali. Dal '68 al '70 aumentano gli accordi firmati dal sindacato insieme con i Consigli di fabbrica, oppure a copertura di accordi decisi da questi ultimi. Nel '69, la Conferenza unitaria dei sindacati dei metalmeccanici (Fiom, Fim e Uilm) riconosce i Consigli di fabbrica come struttura di base del sindacato.
Ma cosa cambia rispetto agli anni che precedono l’autunno caldo? I Consigli di fabbrica, effettivamente sono più democratici rispetto alle Commissioni interne. A differenza di quest'ultime, infatti, sono costituiti da delegati eletti nei reparti dagli operai attivi nelle lotte e negli scioperi, non più su liste elettorali dei sindacati. È altrettanto vero che, col parziale arretramento delle lotte, grazie ad essi le direzioni sindacali riprendono almeno in parte il controllo del conflitto nelle fabbriche e aumentano il loro potere contrattuale nei confronti della controparte padronale. I Consigli di fabbrica, quindi, danno nuovo vigore ai sindacati (6).
Gli atteggiamenti settari e ultrasinistri di alcune organizzazioni politiche dell'estrema sinistra, come Lotta continua, Potere operaio e, sebbene con sfumature diverse, anche Avanguardia operaia, caratterizzate inizialmente dal rifiuto della partecipazione ai Consigli stessi, finiscono per favorire la burocratizzazione di queste strutture - burocratizzazione che sarà particolarmente evidente nella fase di riflusso delle lotte della fine degli anni Settanta - regalandole di fatto agli apparati sindacali (7).
Lo scopo delle direzioni burocratiche, dei padroni e delle istituzioni borghesi è quello di riportare la lotta di classe in azienda nei pacifici lidi della contrattazione sindacale, perfettamente compatibile con il sistema capitalistico (8). Ci riusciranno solo parzialmente, anche perché, accanto a queste strutture consiliari riconosciute dagli apparati sindacali, nelle principali fabbriche del Paese si creano assemblee operaie permanenti, che in alcuni casi sono in grado di condizionare le decisioni dei Consigli di fabbrica. In molti altri casi, invece, si contrapporranno frontalmente ad essi, in particolare nelle numerose situazioni (dall'Alfa Romeo alla Pirelli, dalla Fiat Mirafiori a Porto Marghera) dove sono attivi in fabbrica militanti delle organizzazioni dell'estrema sinistra.
I Consigli di fabbrica dissolveranno progressivamente nel tempo, prima svuotandosi di contenuto, come già era successo con le Commissioni interne e le sezioni sindacali, poi scomparendo del tutto a vantaggio delle Rsa (nate con lo Statuto dei lavoratori) e, successivamente, delle Rsu (9).

 

Dallo Statuto dei lavoratori alla «strategia delle riforme»

Il 20 maggio del '70, dopo circa un anno di discussione in Parlamento, viene approvato un progetto di legge che regola il diritto sindacale, la legge 300/70, meglio nota come Statuto dei lavoratori. Lo Statuto riconosce alcune libertà democratiche ai lavoratori all'interno della fabbrica, come le libertà di espressione politica e sindacale, inoltre tutela il lavoratore da una serie di pratiche padronali vessatorie in materia di disciplina e controllo (10). Allo stesso tempo tenta di normare alcuni aspetti della vita sindacale, col fine prioritario di agevolare i sindacati concertativi nel loro tentativo di controllare il conflitto operaio.
È una legge che nasce da una situazione rivoluzionaria e, per questo, si presenta come relativamente avanzata nel contesto della Repubblica borghese del secondo dopoguerra: la borghesia, per conservare il suo potere economico e politico, sa che ha bisogno di un compromesso con le organizzazioni del movimento operaio. L'ondata rivoluzionaria della fine degli anni Sessanta ha posto in discussione la stessa sopravvivenza del sistema capitalistico: la borghesia, pur con vari distinguo - ci sono settori legati alla destra fascista e alla Massoneria, che, fin dalla metà degli anni Sessanta, con l'intensificarsi del conflitto operaio, preferirebbero una prova di forza autoritaria, come dimostrano i ripetuti tentativi di golpe, di cui uno, il «golpe Borghese», avvenuto non casualmente nel '70 - accetta di fare alcune concessioni al nemico di classe. Ma, come sempre avviene in un contesto capitalistico, i padroni prima o poi si riprendono con la mano destra tutto ciò che hanno concesso con quella sinistra: le modifiche allo Statuto dei lavoratori, dalla riforma Fornero al Jobs Act, lo dimostrano.
Il '70 e il '71 sono anni di assestamento, ma sia i sindacati che la borghesia sanno che i rinnovi contrattuali possono riaprire la partita del conflitto operaio duro e di massa. Tra il '69 e il '70 la classe operaia consolida alcune importanti conquiste salariali e contrattuali: passaggi in massa di categoria, meccanismi di promozione automatica, aumenti consistenti in busta paga, riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, messa in discussione del cottimo, ecc.: tutte conquiste che verranno riconosciute dall'accordo siglato in Fiat dopo l'autunno caldo e che diventerà un «accordo tipo» cui si farà riferimento anche nelle altre categorie industriali.
Sono anche gli anni della cosiddetta strategia delle riforme, dove la sinistra istituzionale (i socialisti al governo in primis, ma anche il Pci dai banchi dell'opposizione parlamentare) contratta con la grande industria alcune concessioni in cambio della pace sociale: sgravi fiscali sui salari, una riforma sanitaria e del trasporto pubblico, leggi a tutela del diritto alla casa. Anche su questo terreno, sono state le lotte operaie, su stimolo dei militanti politici delle organizzazioni della sinistra che le dirigono, ad aver favorito l'estensione delle rivendicazioni al di là dell'ambito salariale e contrattuale. Nel '68-'69 la rivendicazione di servizi pubblici e gratuiti era stata all'ordine del giorno delle mobilitazioni studentesche e operaie. Non solo: la lotta per il diritto alla casa era stata in molti casi un detonatore del conflitto in fabbrica (11).
Per questo i sindacati, se vogliono tentare di riprendere il controllo della classe, devono ricollocarsi su un terreno rivendicativo più ampio, non solo economico ma anche politico: il fine è dirottare su una strada riformista il conflitto operaio, che nei mesi precedenti ha dimostrato di poter andare ben oltre le compatibilità capitalistiche. Nel marzo del '70 le tre Confederazioni inviano al presidente del Consiglio Rumor una lettera, con cui gli chiedono l'apertura di trattative su proposte precise elaborate dai sindacati: riforma fiscale (sgravi fiscali sui salari), riforma della politica della casa, riforma sanitaria e dei trasporti. Si succedono mesi di scioperi, per lo più articolati regione per regione e provincia per provincia (secondo una tradizione consolidata nell'ambito sindacale confederale, che si è sempre rivelata fallimentare e che sopravvive anche oggi), con uno sciopero generale della sola Cgil a ottobre. Nel febbraio del '71 viene presentato in Parlamento un progetto di legge che riprende alcune delle rivendicazioni dei sindacati, ma ne ridimensiona fortemente la portata. In generale, il bilancio degli scioperi è piuttosto scarso, e questo contribuirà a far crescere la sfiducia nei confronti delle direzioni sindacali tradizionali in molti quadri operai che avevano vissuto direttamente le vittorie operaie delle dure lotte dell'Autunno caldo (12).

 

L'unità sindacale dei metalmeccanici

I Consigli di fabbrica non sono l'unica novità di questo periodo. Un altro sottoprodotto delle lotte di questi anni è il raggiungimento dell'unità sindacale dei metalmeccanici, che si concretizzerà nella nascita dell'Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici). Anche in questo caso, le burocrazie sindacali di Fiom, Fim e Uilm sono costrette a riconoscere una realtà che si è già instaurata nelle fabbriche: gli operai protagonisti delle grandi mobilitazioni dell'autunno caldo hanno realizzato nei fatti, nelle lotte e nelle grandi assemblee, l'unità di tutti i lavoratori, indipendentemente dalle sigle sindacali. Nel vivace dibattito delle assemblee, durante la stagione dei grandi scioperi, l'appartenenza a questo o quel sindacato contava ben poco: gli operai più combattivi erano proprio quelli che con più fermezza si erano opposti alle indicazioni dei loro dirigenti sindacali, fossero quelli della Fiom, della Fim o della Uilm.
È così che la pressione della base induce i dirigenti delle tre Confederazioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil) a mimare le mosse di un percorso unitario che, a parole, avrebbe dovuto portare alla costruzione di un sindacato unico. Si arriverà, invece, solo alla firma di un patto federativo il 25 luglio del '72.
Nell'ottobre del '70, a Firenze, nel corso della prima assemblea generale unitaria dei consigli generali delle tre confederazioni (nota come «Firenze 1»), su proposta di circa cinquanta sindacalisti delle tre confederazioni (soprattutto metalmeccanici), viene approvata (col solo voto contrario dei socialdemocratici della Uil) una mozione che prevede l'avvio di un processo verso la costituzione di un «sindacato unico di tutti i lavoratori italiani» (13). La decisione resterà sulla carta, diventando ben presto, col parziale riflusso delle mobilitazioni, carta straccia.
Diverso è il caso dei metalmeccanici, che sono, in questi anni, l'avanguardia più combattiva nelle fabbriche e, per tutti gli anni Settanta, continueranno ad essere protagonisti di azioni di sciopero prolungato: in questo settore la pressione delle lotte si fa sentire con più forza e più a lungo, è per questo che già nel dicembre del '70 la riunione dei consigli generali di Fiom, Fim e Uilm accelera i tempi dell'unificazione: nascono dei «Comitati unitari», che sfoceranno, dopo vari mesi di assemblee e percorsi unitari (e nonostante le resistenze di settori consistenti delle direzioni dei tre sindacati, in particolare della Uilm), nella nascita della Flm nel '72.
Le direzioni sindacali si cautelano dal rischio che il patto federativo si trasformi, anche solo nei metalmeccanici, in un sindacato unitario. Il 4 luglio del '72 Cgil, Cisl e Uil danno vita a una federazione precisando che la scelta del patto federativo «non permette nessuna forma di unità organica in nessun modo essa si denomini, che si articoli a livello verticale o orizzontale, che renderebbe di fatto inoperante la Federazione stessa» (14). Nonostante le cautele delle burocrazie, i metalmeccanici cominceranno a muoversi in molte occasioni come soggetto unitario, sulla spinta delle strutture di base: l'inizio del '73 si caratterizza per un forte protagonismo della Flm, nonostante i tentativi della direzione Cgil e del Pci di invertire la rotta dell'unità sindacale e di riportare le mobilitazioni su un terreno di concertazione al ribasso (15). Ma la spinta operaia non si è ancora fermata e la classe non è per ora disposta a farsi ingabbiare in logiche di subordinazione al padronato.

 

Dall'autunno del '72 ai «giorni della Fiat» del marzo '73

Se il '71 ha rappresentato un fallimento dal punto di vista della mobilitazione per le riforme, diverso è il caso delle lotte contrattuali: se già nel '70 il contratto-tipo dei metalmeccanici viene esteso a tutta l'industria, l'anno successivo gli operai, con le mobilitazioni, strappano ulteriori migliorie, in particolare nella gomma plastica e nel settore agricolo.
Ma è con il '72 che le mobilitazioni ricominciano su larga scala: è l'anno dei rinnovi dei contratti nazionali dei settori operai più combattivi, cioè i chimici, i metalmeccanici e i tessili. Sono milioni i lavoratori che scioperano e si mobilitano tra la seconda metà del '72 e i primi mesi del '73. Nonostante il freno posto dalle burocrazie sindacali agli operai, che vorrebbero proseguire con gli scioperi, si giunge a un primo accordo in ottobre per i chimici: l'accordo prevede aumenti salariali, riduzioni dell'orario di lavoro per le lavorazioni pericolose, inquadramento unico operai-impiegati, riduzione delle categorie (da 10 a 8), riconoscimento di fatto dei consigli di fabbrica (incaricati di gestire commissioni create appositamente per monitorare l'ambiente di lavoro e la sicurezza). La forza delle mobilitazioni operaie di questi anni induce il padronato a fare ampie concessioni, pur di evitare danni alla produzione (e ai profitti) a causa degli scioperi.
Dall'ottobre del '72 ad aprile '73 è la volta dei metalmeccanici. Sono i mesi della svolta repressiva del neoeletto governo Andreotti (maggio '72), che, prendendo a pretesto le azioni terroristiche e gli omicidi politici commessi dalle organizzazioni clandestine che iniziano a nascere in questi anni (dalle Brigate rosse ai Gap) o dei «bracci armati» di alcuni partiti dell'estrema sinistra (come Potere operaio), scatenerà una vera e propria caccia alle streghe nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio, col fine di ridimensionare la forza d'urto della classe lavoratrice: fermo di polizia, omicidi mirati di militanti dell'estrema sinistra, collaborazione coi fascisti del Msi, arresti e provocazioni poliziesche. Sono mesi in cui emerge con sempre maggiore chiarezza una fitta collaborazione tra apparati dello Stato, organizzazioni dell'estrema destra e logge massoniche: dalla strana morte di Giangiacomo Feltrinelli agli attentati fascisti di Reggio Calabria (16).
Ma la repressione non ferma, per ora, le lotte operaie. Anzi, la decisione dell'Alfa Romeo di non pagare le ore perdute indirettamente a causa degli scioperi articolati fa esplodere la rabbia operaia, si moltiplicano i momenti assembleari negli stabilimenti delle principali fabbriche del milanese. L'atteggiamento intransigente del padronato, che sceglie di rompere le trattative con la Flm, radicalizza il conflitto. Alla Fiat Mirafiori si moltiplicano le fermate, con partecipati cortei interni ed esterni. A fine novembre l'azienda ha messo in cassa integrazione migliaia di operai, una decisione vissuta come una provocazione da parte degli operai, che infatti si faranno sentire con rinnovata forza da novembre ad aprile (17).
Sono giorni in cui le tensioni tra i militanti dell'estrema sinistra e la Flm sono ai massimi livelli. Le titubanze e i tatticismi dei delegati sindacali, che subiscono le pressioni delle loro confederazioni, non sono in grado di intercettare le rivendicazioni degli operai, che hanno studiato alla scuola dell'autunno caldo del '69. Ormai sono gli attivisti di Lotta continua, che criticano le direzioni sindacali e innalzano il livello dello scontro col padronato, ad avere ascolto tra gli operai. Dopo il fallimento di uno sciopero alla Fiat il primo dicembre, il movimento riprende presto quota anche a Mirafiori: «lo sciopero del 12 dicembre fu un successo, il 17 gennaio tutti gli operai della Fiat di Torino scesero in sciopero» (18). Il 27 gennaio è la volta dello sciopero generale, proclamato su pressione dei metalmeccanici.

 

Marzo '73: Mirafiori occupata

E arriviamo, ora, a una delle pagine più ingiustamente dimenticate della lotta di classe in Italia: l'occupazione di sei giorni della Fiat Mirafiori, la fabbrica più grande d'Europa, con le bandiere rosse di Lotta continua che sventolano sui cancelli. È molto difficile trovare una cronaca onesta di questi giorni di occupazione, che evidentemente hanno spaventato non solo i padroni ma anche i dirigenti delle organizzazioni della sinistra politica e sindacale, che si sono trovati travolti da una lotta totalmente egemonizzata da Lotta continua. Anche chi non può fare a meno di parlarne, lo fa come se si trattasse di un evento «ordinario», tra i tanti, non degno di particolare attenzione (19).
È un'occupazione che nasce dall'insoddisfazione degli operai, infiammata dai militanti politici, nei confronti dell'accordo che si va delineando agli inizi di marzo. Da fine febbraio a inizio marzo Mirafiori, come nel '69, è un vivaio di scioperi e cortei interni (20). Come nell'autunno caldo, le assemblee operaie, grazie all'intervento degli attivisti politici dell'estrema sinistra, scavalcano le indicazioni dei sindacalisti: il sindacato propone scioperi articolati e gli operai scioperano tutto il turno; il sindacato lancia scioperi in ore diverse nei diversi reparti e gli operai scioperano compatti nelle medesime ore. È, per i militanti di Lotta continua, una vera e propria prova di forza: nei principali reparti gli operai si fidano ormai solo di loro, cioè di chi li chiama alla lotta dura.
Gli scioperi si estendono ben presto agli altri stabilimenti Fiat di Torino, e non solo. Il 9 marzo gli operai di Mirafiori lanciano un appuntamento a tutti gli operai Fiat del torinese davanti ai cancelli della loro fabbrica: circa 10 mila operai, della Fiat Avio, della Lancia, della Bertone, della Carrello, del Lingotto e di altri stabilimenti si radunano a Mirafiori. Trentin, allora segretario generale della Fiom e della Flm, rinuncia a fare un comizio: probabilmente teme di ricevere solo dei fischi.
Il 15 marzo gli operai rispondono a una provocazione della Fiat, che non paga le ore di mensa (spesso le mense erano luoghi di assemblee autoconvocate): è la volta di nuovi scioperi, nuovi cortei interni, infuocate assemblee. Il giorno dopo si crea una frattura ancora più profonda tra gli operai e i rappresentanti sindacali in fabbrica: durante uno sciopero di tre ore con corteo gli operai vorrebbero seguire le indicazioni di Lotta continua e proseguire verso corso Marconi, sede della direzione della Fiat, ma il sindacato fa un cordone e fa rifluire il corteo verso la fabbrica. Dal 21 marzo si moltiplicano le assemblee nelle fabbriche del torinese, con scioperi, picchetti ai cancelli e occupazioni simboliche. Il 22 marzo è sciopero generale in tutte le fabbriche metalmeccaniche di Torino e provincia. Qualcosa di simile sta avvenendo, negli stessi giorni, in altre città: il 22 marzo a Milano, ad esempio, più di trenta fabbriche - dall'Alfa Romeo alla Siemens, dalla Magneti Marelli alla Innocenti - sono in sciopero con occupazioni temporanee degli stabilimenti.
Il 27 marzo il livello dello scontro si innalza: circola la voce di un accordo inadeguato al numero di ore di sciopero. Il 28 marzo, 6 mila operai in corteo bloccano la produzione alle meccaniche e alle carrozzerie. All'inizio del secondo turno ha inizio l'occupazione delle carrozzerie: è l'avvio di sei giorni di blocco della fabbrica (il sindacato aveva proposto solo due ore di sciopero!). Gli attivisti sindacali del Pci (Fiom) fanno da pompieri, ma sono in schiacciante minoranza. Ai cancelli sventolano le bandiere rosse di Lotta continua, i picchetti operai non fanno entrare i capi (quelli che riescono a entrare vengono buttati fuori). Mirafiori è occupata.
Il 29 marzo di nuovo i militanti delle organizzazioni dell'estrema sinistra si presentano ai cancelli e rilanciano l'occupazione della fabbrica e lo sciopero a oltranza. I delegati sindacali del Pci cercano di sminuire la lotta, provano a far passare l'occupazione per «un'assemblea permanente». La Stampa annuncia che è stato siglato l'accordo. Per tutta risposta gli operai escono dallo stabilimento e piantano le bandiere rosse ai cancelli.
I giorni successivi la musica non cambia: occupazioni, assemblee, cortei interni, picchetti ai cancelli. Andando avanti con la lotta e con l'occupazione, i lavoratori dimostrano di non riconoscere nessun accordo. Significativamente, nelle altre fabbriche del torinese gli operai esprimono solidarietà alla lotta di Mirafiori: alla Fiat di Grugliasco gli operai assediano la palazzina e bloccano le strade attorno allo stabilimento; alla Bertone una bandiera rossa sventola sul tetto della fabbrica; a Rivalta si diffonde lo slogan «Facciamo come a Mirafiori». Il 30 marzo tutta Mirafiori è completamente bloccata, mentre molte fabbriche torinesi seguono l'esempio.
Nei giorni dell'occupazione Mirafiori è come una «cittadella inespugnabile, e lo Stato si guarda bene dall'intervenire in qualsiasi modo» (21). I «giorni della Fiat» cessano il 2 aprile, con la firma di un contratto che, se da un lato rappresenta un avanzamento rispetto alle premesse, al contempo serve ai padroni e alle burocrazie sindacali per far rifluire il conflitto: ne pagheranno il conto decine di operai che, negli anni successivi, saranno licenziati (oppure trasferiti nei «reparti confino») dalla Fiat per aver partecipato a queste giornate di lotta. Sarà Trentin stesso a presentare l'accordo in fabbrica, non senza fischi e contestazioni.
Se queste giornate mettono in crisi i padroni e le burocrazie sindacali, altrettanto sarà per le organizzazioni politiche che avevano promosso le lotte: Potere operaio decide lo scioglimento del gruppo dopo pochi mesi, Lotta continua inizierà una crisi che la porterà, nel giro di qualche anno, alla totale dissoluzione. La verità è che tutte le organizzazioni della sinistra extraparlamentare brancolano nel buio: lanciano slogan rivoluzionari, che vengono ripresi con entusiasmo dagli operai, ma non hanno un programma rivoluzionario né un partito di avanguardia di tipo leninista; ignorano la necessità di guadagnare ad una prospettiva rivoluzionaria le masse politicamente attive e si rinchiudono in atteggiamenti settari; cercano di compensare la mancanza di un programma e di un'internazionale rivoluzionari con l'elogio di atti terroristici che aprono la strada alla repressione.
È purtroppo involontariamente vero quello che scrivono ancora oggi alcuni commentatori borghesi: che Lotta continua e Potere operaio hanno favorito il terrorismo. Ma non perché - come ci spiegano i difensori dell'ordine costituito - ogni istanza rivoluzionaria inevitabilmente sfocia nel terrorismo. È proprio il contrario: hanno favorito il terrorismo perché hanno privato, con le loro confusioni programmatiche, la classe operaia di un punto di riferimento credibile in un momento in cui le masse proletarie in lotta avevano bisogno di una solida e lungimirante direzione politica rivoluzionaria. In questo vuoto si sono inserite le organizzazioni terroristiche, le cui azioni sono state utilizzate dallo Stato borghese per fare piazza pulita di una stagione di straordinarie lotte operaie.

 

[Articolo già pubblicato sulla rivista teorica Trotskismo oggi]

 

Note:

 

  1. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Oscar Mondadori, 1969, p. 10.
  2. Si veda il nostro articolo »1968-69: la Fiat avamposto delle lotte operaie», in Trotskismo oggi 4, pubblicato anche qui: https://www.partitodialternativacomunista.org/articoli/sindacato/1968-69-la-fiat-avamposto-delle-lotte-operaie-di-fabiana-stefanoni.
  3. Attilio Mangano, Le riviste degli anni Settanta, Massari editore, 1998, p. 29.
  4. Trotsky, Classe, partito e direzione in Programma di transizione, Massari editore, p. 173 e sg.
  5. Le Commissioni interne erano sorte agli inizi del Novecento, sulla base di accordi presi tra sindacato e aziende nel settore metalmeccanico. Inizialmente erano organismi votati solo dagli iscritti al sindacato (la Confederazione Generale del Lavoro), che controllava così tutte le trattative. Si diffusero e consolidarono durante il Biennio rosso del '19-'20, assumendo, su pressione delle lotte, un carattere più democratico: vennero introdotti dei Commissari di reparto eletti da tutti i lavoratori (è in questa occasione che si inizia a usare il termine Consiglio di fabbrica, termine ripreso in particolare nella riflessione di Antonio Gramsci). L’avvento del fascismo fece piazza pulita di tutti gli organismi di rappresentanza sindacale, di fabbrica e sindacale. Nel 1943 furono ricostituite le Commissioni interne, che, anche qui su stimolo delle lotte operaie antifasciste nelle fabbriche, inizialmente assunsero funzioni molto più ampie che nel primo dopoguerra. I loro compiti furono ridimensionati col riflusso delle mobilitazioni, una prima volta con un accordo tra Cgil e Confindustria nel 1947, per poi essere ulteriormente rivisti al ribasso nel 1953 e nel 1966 (sempre sulla base di accordi interconfederali tra burocrazia sindacale e rappresentanti del padronato). Negli anni Cinquanta, per le divisioni tra Cgil, Cisl e Uil (dopo la scissione del 1948), vennero introdotte le sezioni sindacali in azienda, e le funzioni delle Commissioni interne furono ulteriormente ridotte, finendo col diventare, sulla base di un'azione convergente di padronato e burocrazie sindacali, una struttura vuota senza alcun legame con la vita di fabbrica.
  6. Sono interessanti, benché imbevute del mito della «autonomia operaia» molto diffuso allora nelle organizzazioni dell'estrema sinistra, le osservazioni di Augusto Illuminati, che fotografano una realtà in cui il sindacato cerca di riprendere le briglie di una classe operaia che lo aveva scavalcato con le lotte: «Il sindacato si adegua, accetta provvisoriamente l'autonomia operaia, che investe radicalmente le stesse strutture organizzative (i delegati di reparto sostituiscono rapidamente le logore e in parte screditate Commissioni interne), non rinuncia però mai alle sue riserve e torna ben presto a controllare e a gestire le lotte secondo una logica di integrazione al sistema» (A. Illuminati, Lavoro e rivoluzione, Mazzotta Editore, p. 162.
  7. «Il numero del settimanale Lotta continua del 14 febbraio 1970, interamente dedicato a un dossier sui delegati, conclude un'inchiesta condotta in numerose fabbriche affermando: “È stata breve la stagione dei delegati sindacali. L'illusione di un loro uso classista è quasi ovunque sfumata”. Nello stesso numero l'editoriale (intitolato “No al delegato sindacale”) ribadisce che “la figura del delegato è la risposta sindacale - e padronale - a questa pericolosa crescita delle lotte spontanee, alla negazione della legalità produttiva e contrattuale che essa esprimeva”. E aggiunge: “Di fronte al padrone siamo tutti delegati”; accettare la tesi della doppia faccia del delegato significa impedire che “si liberi la carica politica dell'organizzazione operaia autonoma che può esprimersi solo fuori e contro il sindacato”» (L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, pp. 66 e 67). Lo slogan di Lotta continua sarà, infatti, «siamo tutti delegati», in contrapposizione frontale ai Consigli di fabbrica. Si veda anche L'orda d'oro: «i Consigli erano contestati dalla sinistra operaia, soprattutto dagli operai e dai militanti di Lotta continua e Potere operaio, e anche dalle assemblee autonome e dai comitati di base. Questa componente criticava nei Consigli soprattutto due cose: in primo luogo la reintroduzione di un criterio di delega (...), in secondo luogo si criticava la sostanziale sudditanza dei Consigli al ruolo sindacale della mediazione» (N. Balestrini, P. Moroni, L'Orda d'oro, Feltrinelli 1988, p. 424). Va precisato che il carattere movimentista di Lotta continua si traduce, in relazione ai Consigli di fabbrica (così come in molti ambiti), nell’assenza di una linea precisa, tanto è vero che in occasione del secondo convegno operaio di Lotta continua, che si svolge nel giugno del 1974, una buona parte dei presenti (più del 30%) sono delegati (in particolare quelli provenienti dal Trentino, dal Veneto e da alcune province della Lombardia). Non solo: il 75% dei presenti sono iscritti al sindacato, nonostante l’atteggiamento di rifiuto del sindacato dei principali dirigenti di quel partito. Emergono anche in questo caso tutti i limiti di un’organizzazione priva di una reale struttura e di disciplina interna: limiti che spiegano la rapida dissoluzione, nel periodo della repressione, di un’organizzazione che raggruppava decine di migliaia di militanti, tra cui tanti quadri operai in prima fila nelle lotte.
  8. Persino i più acritici sostenitori dei Consigli di fabbrica, come Lucio Libertini, riconobbero il tentativo del padronato di controllare il conflitto operaio attraverso i Consigli: «È significativo che il padronato, dopo aver opposto una resistenza frontale ai delegati, cerchi almeno di “filtrarli” per riprodurre alla fine forme di rappresentanza “istituzionali” distaccate dal gruppo omogeneo, dalla squadra, dal reparto: e che, quando è costretto ad accettare i delegati avanzi e faccia avanzare la richiesta che essi non siano eletti in modo unitario dal gruppo omogeneo ma siano 'nominati' dai sindacati, secondo i criteri di spartizione della zona di influenza. Ciò che nei delegati sopra ogni altra cosa il blocco industriale respinge è che essi siano l'espressione di un potere unitario dei lavoratori che si eserciti all'interno delle strutture di produzione: è che essi siano lo strumento di una crescita della coscienza politica», in L. Libertini, La Fiat negli anni Settanta, Editori Riuniti, 1973, pp. 87 e 88.
  9. Non è questo il luogo per ricostruire i passaggi successivi dell'evoluzione della rappresentanza sindacale in Italia. È utile però ricordare che l'accordo vergogna sulla rappresentanza (Testo unico sulla rappresentanza) del gennaio 2014 rappresenta l'ultima tappa di un percorso storico che ha dimostrato che gli accordi interconfederali su questo tema difficilmente riescono nel loro intento, cioè quello di imbrigliare la lotta di classe nella rete di astratte norme. La lotta di classe, che, parafrasando Shakespeare, continua a scavare come una vecchia talpa, è in grado di fare rapidamente piazza pulita degli accordi siglati a tavolino.
  10. Si tratta di quelle tutele che negli ultimi anni i governi hanno progressivamente eroso, restituendo alla classe padronale molti privilegi che, dopo il ciclo di lotte del '68-'69, era stata costretta a sacrificare sull'altare delle compatibilità capitalistiche.
  11. Gli affitti altissimi sono una delle cause che contribuisce a far esplodere le lotte a Mirafiori nel 1969, rimandiamo per questo al già citato nostro articolo “1968-69: la Fiat avamposto delle lotte operaie”.
  12. «Non dobbiamo (...) meravigliarci che la principale leva dell'unità sindacale fra il '70 e il '73 sia costituita dalle lotte operaie. Ogni volta che scoppiano lotte, scioperi o movimenti rivendicativi, per le riforme o il rinnovo dei contratti, assistiamo a un rafforzamento del movimento dei consigli e, per suo tramite, dell'unità organica delle federazioni in lotta. L'unità sindacale è dunque sempre la conseguenza immediata delle pressioni della base. Non appena la combattività decresce e le lotte perdono di intensità, come nel '73, riprendono il sopravvento la 'politica' e il patriottismo di organizzazione» in D. Grisoni, H. Portelli, Le lotte operaie in Italia dal 1960 al 1976, Bur, 1977, p. 195.
  13. Ivi, 197.
  14. Ivi, 203.
  15. Si tratta del cosiddetto «Rapporto Lama»: «Alla fine di gennaio (...) Luciano Lama (il segretario nazionale della Cgil, ndr) propose un ritorno alla politica confederale degli anni Cinquanta e alla politica della 'programmazione democratica'. Lama, riprendendo direttamente le proposte del Pci, lanciò l'idea di un'alleanza che per il tramite della programmazione poteva essere proposta ai “ceti sociali intermedi e ai capitalisti più avanzati” promettendo il blocco della “monetizzazione” delle rivendicazioni nella contrattazione aziendale», ivi, pp. 207 e 208. Conseguentemente, Lama proporrà l'autoregolazione degli scioperi e dichiarerà in un'intervista a Paese sera (dicembre 1973): «anche i sindacati hanno un'arma, anche noi teniamo il manico di un grosso coltello: quello del salario. Ma quell'arma la vogliamo impiegare con una visione globale degli interessi del Paese, non di quella parte soltanto che noi rappresentiamo direttamente» (in A. Illuminati, cit., p. 219).
  16. Per ragioni di spazio, approfondiremo questi aspetti importanti della vita politica di questi anni in altri articoli.
  17. Si veda su questo il saggio di Raffaello Renzacci contenuto in A. Moscato, R. Renzacci, «Cento anni della Fiat - Lottare alla Fiat», reperibile sul sito antoniomoscato.altervista.org: «A fine novembre la Fiat, dichiarando difficoltà sul mercato, ricorse alla cassa integrazione per migliaia di persone, e tale scelta fu giudicata pretestuosa e strumentale da parte della Flm. Tra novembre e dicembre gli stabilimenti Fiat furono attraversati da un'ondata di scioperi, spesso improvvisi. Il 1973, tra le lotte per il contratto nazionale e quelle per la vertenza integrativa, si chiuse con più di 7 milioni di ore di sciopero fatte dagli operai Fiat, all'incirca la metà di quelle del '69». Il saggio di Renzacci a nostro avviso sminuisce il ruolo di Lotta continua nella vertenza del 1973 a Mirafiori e tende a sopravvalutare il ruolo dei delegati della Flm, che in questi anni, come riportato da molte testimonianze, sono invece spesso costretti ad accodarsi alle decisioni che i militanti di Lotta continua riescono a far passare tra gli operai.
  18. Grisoni, H. Portelli, op. cit., p. 180.
  19. Questo vale, ad esempio, sia per il già citato saggio di Renzacci che per il libro di Libertini. Quest'ultimo, in trecento pagine dedicate alle lotte alla Fiat agli inizi degli anni Settanta, vi fa solo un breve cenno e indiretto: «Le immagini, apparse su tutti i giornali italiani, delle bandiere rosse e dei picchetti operai alle porte dei grandi stabilimenti torinesi hanno diffuso un nuovo livello del movimento e hanno rappresentato il simbolo visibile della nuova forza, del nuovo potere della classe operaia», L. Libertini, cit., p. 112. Le critiche che si possono muovere a Lotta continua - dall'assenza di un programma rivoluzionario e transitorio al settarismo, dall'avventurismo guerrigliero al movimentismo - non possono essere un pretesto per dimenticare queste giornate che hanno dato esempio della travolgente forza della classe operaia organizzata e della sua disponibilità alla lotta dura contro il sistema capitalistico. Fa eccezione la già citata opera di Primo Moroni e Nanni Balestrini, L'Orda d'oro, che dedica alla vicenda alcune pagine.
  20. Si veda la dettagliata ricostruzione di questi giorni contenuta nell'opuscolo di Lotta continua I giorni della Fiat, Ed. Lotta continua, 1973.
  21. Moroni, N. Balestrini, op. cit., p. 435.

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