Aumento dei costi dell’energia: si ferma la produzione
Un altro duro colpo per i lavoratori e le lavoratrici
di Massimiliano Dancelli
La penuria di materie prime conseguenza della guerra e l’aumento spropositato dei prezzi dell’energia rischiano di abbattersi come un macigno sui lavoratori italiani. Non solo per la difficoltà di fare un pieno di carburante o di far fronte al pagamento di bollette divenute ormai insostenibili, ma anche per il rischio di vedere ulteriormente ridotto il salario per il nuovo ricorso alla cassintegrazione causato dalla chiusura di diverse aziende che hanno scelto di fermare la produzione a causa dell’aumento dei costi dell’energia e del trasporto merci. Alcune di queste potrebbero anche non riaprire più o delocalizzare, con conseguente perdita di numerosi posti di lavoro.
Le prime chiusure
Le prime fabbriche ad annunciare la chiusura sono quelle che per funzionare utilizzano parecchia energia o importano materie prime dagli scenari di guerra, come il settore siderurgico, della ceramica, della carta e di lavorazione di prodotti derivati dal grano. Gli altiforni alimentati a metano o a elettricità consumano parecchio e l’aumento dei prezzi rende non più conveniente ai padroni continuare la produzione. L’energia elettrica ad esempio al 7 marzo è salita a oltre quota 587 euro al MWh: prezzo quasi quattro volte più alto che nello stesso periodo di un anno fa, circa dieci volte in più del 2020 (1).
A peggiorare ulteriormente il quadro ritroviamo anche la riduzione del flusso di materie prime che giungevano da Ucraina e Russia, in special modo ferro, carbone e grano, oltre all’aumento del costo dei trasporti legato all’aumento del costo dei carburanti. Diverse fabbriche nella penisola hanno già annunciato sospensioni della produzione o chiusure di interi reparti: tra queste ci sono aziende importanti che occupano migliaia di lavoratori, tra le tante ricordiamo le bresciane Alfa acciai, Ori Martin e gruppo Feralpi, le Acciaierie venete di Padova e in Friuli il gruppo Pittini. La situazione peggiore la sta vivendo il settore della ceramica nel modenese, dove sono a rischio chiusure prolungate per circa 27.000 lavoratori.
Pagano sempre i lavoratori
Queste chiusure non avranno effetti solo per le aziende direttamente interessate dalla chiusura ma, interrompendo un anello della catena produttiva, presto saranno anche le altre attività a dover chiudere, senza contare la mancanza di prodotti finiti per la popolazione. La chiusura delle cartiere, ad esempio, interrompe tutta la catena degli imballaggi, con il conseguente mancato arrivo di merci sugli scaffali dei supermercati, dei giornali nelle edicole e perfino dei medicinali nelle farmacie. Inutile dire quali potranno essere le conseguenze di queste chiusure o comunque di questo calo della produzione.
A farne le spese saranno come sempre i lavoratori e le lavoratrici. I capitalisti chiudono per evitare una lieve diminuzione dei loro profitti miliardari, ma non rischiano certo di morire di fame. Invece i lavoratori e le lavoratrici direttamente coinvolti nelle chiusure vedranno ridotto drasticamente il proprio salario a causa della cassintegrazione (i più «fortunati» ci stanno già rimettendo le ferie…) e col serio rischio di perdere anche il posto di lavoro. Rischio che corrono principalmente le donne che, come abbiamo potuto vedere durante la pandemia con quasi un milione di posti di lavoro persi, sono sempre le prime ad essere licenziate. In secondo luogo i lavoratori e le lavoratrici si troveranno in difficoltà anche per sopravvivere se verranno a mancare i beni di prima necessità, dal momento che, a differenza dei padroni, non possono reperire ciò che serve percorrendo mercati alternativi.
Quale soluzione?
Come premessa, diciamo subito che non portiamo nessuna solidarietà né comprensione per i padroni delle grandi aziende in difficoltà. L’aumento dei prezzi dell’energia non può essere una scusa per scaricare ancora una volta sui lavoratori e sulle lavoratrici il calo dei profitti miliardari. Sappiamo che la maggior parte dei capitalisti ha patrimoni ingenti, sufficienti per sostenere questa situazione: le grandi imprese che sospendono la produzione hanno tutte le risorse per provvedere al pagamento pieno degli stipendi dei loro dipendenti.
I lavoratori e le lavoratrici devono inoltre mobilitarsi subito per chiedere l’immediata diminuzione dei costi del carburante e dell’energia. Serve da subito l’eliminazione immediata delle accise sul carburante e l’abolizione dell’Iva sulle bollette dell’energia come primo accorgimento urgente. Le grandi aziende produttrici e distributrici di gas ed elettricità devono essere nazionalizzate e poste sotto il controllo dei lavoratori, per evitare le speculazioni che hanno portato all’aumento spropositato dei prezzi. Non sono misure utopistiche: solo un’economia di tipo socialista, in cui la produzione e il conseguente utilizzo di energia vengano razionalizzati, potrà porre fine a tutte le guerre e garantire una vera sostenibilità energetica e ambientale, garantendo l’accesso alle fonti energetiche in egual misura e con costi accettabili per l’intera popolazione mondiale.
Note:
1) Fonte: Brescia Today del 08/03/2022